Cari fratelli e sorelle, oggi celebriamo la festa di san Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei. Egli si è particolarmente prodigato a promuovere, fra persone di ogni ceto sociale, la ricerca della santità e l’esercizio dell’apostolato, attraverso la santificazione del lavoro, in mezzo al mondo e senza cambiare stato di vita. Detto altrimenti, si è impegnato ad insegnare ad ognuno a farsi santo nel proprio lavoro, mediante il proprio lavoro. Tutti sono chiamati a farsi santi, ossia a vivere Cristo, ad amarlo sopra ogni cosa, a donarlo agli altri, affinché ognuno possa godere della comunione con Lui, della sua capacità di amare, di offrirsi al Padre con tutta la propria vita, divenendo gloria vivente di Dio. Tutti, ossia mamme e papà, operatori ecologici, notai, avvocati, amministratori della cosa pubblica, politici, sindacalisti, professori, metalmeccanici, elettricisti, operatori dei mass media, ingegneri elettronici, bancari, broker finanziari nella Borsa, broker assicurativi, infermieri, muratori, ferrovieri, coltivatori della terra, cooperatori ed imprenditori; tutti coloro che svolgono una professione tradizionale o nuova – a dire il vero anche i disoccupati, con una difficoltà in più perché senza lavoro – sono chiamati a essere santi, ossia a vivere immacolati al cospetto di Dio, come suoi figli e figlie amantissimi. Ebbene, san Josemaría Escrivá, visse la sollecitudine di insegnare a tutti i credenti, specie ai christifideles laici, di vivere nella santità, di essere santi, anche se non entro le mura di un convento o se non sono sacerdoti o religiosi o religiose. Santità è una parola caduta in disuso, forse anche perché, in una società sempre più secolaristica come la nostra, l’amore per Dio si è affievolito, come anche la percezione della sua presenza in noi, nella storia, nelle vicende di ogni giorno. A fronte del grande impegno apostolico di san Josemaría Escrivá viene subito da fare un esame di coscienza comunitario ed individuale. Ma oggi, nelle nostre comunità ecclesiali, nelle nostre associazioni ed organizzazioni, nonché nei movimenti, parliamo ancora di santità, siamo convinti che l’appello alla santità non è uguale per tutti e che ognuno dev’essere accompagnato a viverla secondo la sua professione, nella sua professione? Nel passato si curava di più la pastorale per le varie categorie di persone, anche per coloro che guidavano i bus e i tram, per le ostetriche. Oggi sembra essersi persa questa abitudine. Avviene per scarsità di operai nella messe del Signore? Sarà anche per questo. Pare, però, che ciò succeda, perché è diminuita la nostra fede, perché si crede meno alla nostra identità, perché è carente lo spirito missionario. Siamo giustamente preoccupati di portare Cristo nelle terre più lontane. Ma non sarebbe errato incominciare a preoccuparci di essere missionari anche qui, nelle nostre terre. Le nostre omelie, rimaste quasi, sia pure impropriamente, l’ultima spiaggia della formazione, sembrano pronunciate per tutti e per nessuno. Così, i nostri momenti educativi hanno perso una delle più belle peculiarità: preparare laici e laiche a vivere l’amore per Cristo e per il prossimo secondo la loro specifica professione. I nostri discorsi passano sopra le teste, non coinvolgono i singoli, perché non scendono nel quotidiano. Un primo insegnamento che possiamo trarre dalla considerazione della bella e nitida figura del fondatore dell’Opus Dei è senz’altro questo: impegnarsi di più a vivere la nostra missionarietà come un accompagnamento più personalizzato dei credenti nel cammino della santità.
Ma come educare alla santità, come la si ottiene? «Siate perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei cieli», ci ha detto Gesù. Ciò vale per tutti i battezzati. La conversione è questione di un momento. Ma la santificazione dura tutta la vita, osservava san Josemaría Escrivá. Essa si ottiene dando una motivazione sovrannaturale alla propria occupazione professionale. Detto diversamente, diventiamo santi vivendo la nostra professione rimanendo uniti a Cristo, dimorando in Lui, assumendo i suoi stessi sentimenti, riconoscendolo presente e amandolo nelle persone che si incontrano.
Se l’impegno della santificazione è lo stesso per tutti i tempi e tutti i luoghi, esso si realizza in forme diverse e nuove, a seconda dei contesti geografici, storici e culturali. Un tempo non eravamo abituati a sentir parlare dei problemi ecologici, dell’ecologia ambientale e dell’ecologia umana. Oggi, a fronte della questione ecologica, sì. Qualche giorno fa, papa Francesco, mediante la sua enciclica sociale, che sin dal suo incipit si ispira a san Francesco d’Assisi, ha richiamato i credenti e tutti gli uomini di buona volontà, ma anche i non credenti, a costruire un grande movimento ecologico mondiale per dedicarsi seriamente ed urgentemente alla cura della casa comune. Non interessarsi della casa comune equivarrebbe a disinteressarsi del destino comune, significherebbe non amare Dio, le sue creature, l’umanità, le generazioni future. Sono peccati – ha scritto chiaro e tondo il pontefice, citando il patriarca Bartolomeo – contro la creazione. «Che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione di Dio; che gli esseri umani compromettano l’integrità della terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide; che gli esseri umani inquinino le acque, il suolo, l’aria: tutti questi – scrive papa Francesco nella sua enciclica, costringendoci ad aggiornare i formulari per l’esame di coscienza allorché si va a confessarsi – sono peccati». Perché “un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio”» (Laudato sì n. 8).
Allargando quanto detto da papa Francesco, circa l’impegno per un’ecologia integrale, ossia comprensiva dell’ecologia ambientale ed umana, nella lista dei peccati andrebbero inseriti anche i peccati contro la vita, la famiglia, il matrimonio, la manipolazione del genoma, il capitale sociale. Fa parte, dunque, dell’impegno di una santificazione aggiornata, di crescita nella fede, la cura responsabile della casa comune, l’impegno per un’ecologia integrale, assunte e vissute per amore di Dio, del suo progetto, dell’umanità, del creato. In particolare, fa parte del cammino nella/della santità la «conversione ecologica» – che fa emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni col mondo -, l’educazione ad una ecologia integrale, una catechesi attenta alla questione ecologica, interpretata anche come questione di ecologia umana, il perseguire uno sviluppo sostenibile, ossia uno sviluppo non contrassegnato dall’avidità, dal consumismo, bensì da uno sguardo contemplativo e dalla creatività, dalla convivialità tra le generazioni, dalla sobrietà, dall’umiltà, da una spiritualità della gioia e della pace, dalla creazione di nuove istituzioni internazionali proporzionate ai problemi ambientali globali.
Sicuramente san Josemaría Escrivá, amante della Chiesa e del papa e, soprattutto di Gesù Cristo, Signore dell’universo, non avrebbe esitato ad indicare come cammino di santificazione ciò che papa Francesco ha coraggiosamente proposto in questi giorni, chiamando le cose per loro nome, sollecitando a riformare quel sistema culturale che tutti ci domina e che è contrassegnato da materialismo consumistico, dal capitalismo finanziario che assolutizza il profitto a breve, dalla cultura dello scarto e dall’ideologia della tecnocrazia. Anche san Josemaría avrebbe attirato l’attenzione sulle radici etiche e spirituali dei problemi ambientali, sulla necessità di riconoscere i peccati contro la creazione, di costruire una città abitabile, di realizzare la giustizia tra i popoli e le generazioni.
Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana. La santificazione dei credenti comprende una cura generosa e piena di tenerezza per la casa comune. Implica gratitudine e gratuità, vale a dire il riconoscimento del mondo come un dono ricevuto dall’amore del Padre, che provoca come conseguenza disposizioni di rinuncia e gesti di condivisione con i propri fratelli. Si fonda sulla consapevolezza, rafforzata dallo Spirito (cf Seconda Lettura: Rm 8, 14-17)), di vivere come figli di Dio che partecipano, con e nel Figlio, ad una nuova creazione che trasfigura il mondo.
Ma per Josemaria, come peraltro suggerisce il brano del Vangelo odierno (cf Lc 5, 1-11), fa parte della propria santificazione quotidiana anche l’essere apostoli, pescatori d’uomini. Il cristiano non deve santificare solo il proprio lavoro professionale. Occorre predicare il Vangelo. Occorre prendere il largo e gettare le reti per la pesca. Occorre lavorare per portare le persone all’Amore (con la A maiuscola). Chiediamoci: ricerchiamo e viviamo realmente una santità così? Ricerchiamo persone, giovani per accompagnarle da Gesù, il Redentore? Solo Lui può dare risposta alle loro attese più profonde. Solo Lui può salvare. Le tappe del Cammino spirituale di cui parla Josemaría Escrivá – cerca Cristo, trova Cristo, ama Cristo – si completano in un’ultima tappa: dona Cristo! Da tempo le nostre comunità sono impegnate in una nuova evangelizzazione, affinché le persone, i giovani, coloro che sono alla ricerca, possano incontrarLo. L’incontro con Lui, l’innamorarsi di Lui fa la differenza. Rimanendo uniti a Lui, come i tralci alla vite, possiamo trasfigurare le nostre esistenze e portare frutti abbondanti di opere buone. A fronte della perdurante frattura fra fede e vita, la Chiesa è sempre impegnata ad insegnare che noi possiamo essere costruttori di un nuovo umanesimo vivendo Cristo. La nostra Chiesa, che è in Faenza e Modigliana, condivide con le altre Chiese d’Italia il cammino che conduce al prossimo Convegno di Firenze e che sollecita a riconoscere in Cristo Colui che ci consente di rigerarchizzare le nostre scale di valori. Nei prossimi mesi, prima di novembre, sarete invitati – mi riferisco in particolare a coloro che vivono in questa diocesi – dai vostri parroci e, prima ancora, dai vicari foranei, coadiuvati dai rappresentanti della nostra diocesi al Convegno nazionale di Firenze, a riflettere su quale tipo di umanità noi crediamo, su quale figura di persona noi incentriamo la nostra educazione, su quale modello di uomo noi costruiamo la nostra città. La nostra fede in Gesù Cristo non ci consente di accettare supinamente una visione economicistica ed immanentista della vita, un concetto di uomo chiuso in se stesso, inteso in senso individualistico, senza fraternità e solidarietà, senza apertura a Dio.
Partecipando all’Eucaristia, imitando san Josemaría Escrivá, celebriamo ed offriamo un’umanità in ascolto, ricca di interiorità e trascendenza, disponibile al dono totale di sé, come quella di Cristo, vittima e sacerdote insieme.