Cari presbiteri, diaconi, religiosi, fedeli laici,
nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II papa Francesco ha desiderato aprire la Porta Santa. Egli lo ha fatto sia per ricordare l’impegno della Chiesa in una nuova tappa dell’evangelizzazione, non rimanendo chiusa in se stessa ma andando incontro all’uomo d’oggi, sia per donare a tutti i nostri contemporanei l’esperienza trasfiguratrice e consolante del perdono di Dio. Oggi il mondo ha bisogno di misericordia e di perdono, ha bisogno di una tenerezza sconfinata. Detto altrimenti, ha bisogno di salvezza, ossia di essere cavato fuori dal peccato, dall’egoismo, dall’indifferenza, dalla spietatezza, dall’odio e dalla violenza, piaghe che alimentano altre piaghe come diseguaglianza, fame, povertà, guerre.
La malattia mortale che colpisce la nostra società non si manifesta solo attraverso il dominio di una tecnica che, anziché essere posta al servizio del progresso e dello sviluppo sostenibile, sfrutta sino all’inverosimile le risorse del pianeta ed è applicata in maniera indiscriminata, per cui tutto è possibile anche ciò che non è eticamente lecito, come l’eutanasia, la manipolazione genetica, la clonazione, il licenziamento di massa.
Anche i numerosi episodi di terrorismo, i molti conflitti in atto sulla faccia della terra – pezzi di una terza guerra mondiale -, ne sono una manifestazione e ci testimoniano come l’umanità abbia bisogno di misericordia, di un cuore nuovo, oltre che di un pensiero nuovo. L’urgenza del perdono di Dio a ciascuno e tra noi è avvertita con più cogenza perché ognuno di noi è nativamente ad immagine del Padre misericordioso. Siamo stati creati per vivere come figli di Dio, come fratelli e sorelle. Ad ognuno spetta un amore più che umano, quello divino. Il gap tra l’esistente e il nostro dover essere figli adottivi di Dio, famiglia di popoli, è troppo evidente in molte circostanze della vita contemporanea, che vede crescere disparità e ingiustizie.
Ebbene, la Chiesa è ben conscia di questa distanza. Proprio l’esperienza della misericordia di Dio la sospinge a farsi carico dell’annuncio del perdono a ogni uomo, a ogni popolo, affinché la tenerezza di Dio aiuti a raddrizzare le strade storte, a colmare i burroni che separano.
Il desiderio inesauribile della Chiesa di offrire misericordia deriva dalla sua esperienza di accoglienza del mistero di Gesù Cristo vissuto e celebrato. Detto altrimenti, per cambiare noi stessi, la Chiesa e il mondo dobbiamo passare attraverso la Porta che è Cristo.
Ciò non è possibile d’un colpo. Occorre porsi in stato di pellegrinaggio e convertirsi al Redentore. Ecco quanto siamo chiamati a compiere. Per avere maggior consapevolezza di tutto ciò è necessario che ci poniamo alcune semplici domande.
Perché si diventa così spietati e crudeli nei confronti dei propri simili? Perché assolutizziamo il denaro, il profitto, la tecnica sino a rivolgerli contro noi stessi? Perché l’altro da me è spesso considerato mero strumento o addirittura uno «scarto», ossia un essere inutile, inservibile?
Ciò che ci rende gradualmente indifferenti nei confronti degli altri, del vero, del bene e di Dio, sprezzanti nei confronti dei fratelli, è il considerarci superiori ad essi. Decidendo di essere noi la misura della verità, del bene e della realtà finiamo per considerare gli altri «tu» quali esseri che non ci appartengono, antagonisti, estranei, concorrenziali. E così essi diventano anche esseri da sfruttare, quasi fossero semplici mezzi e non fini per noi. Assolutizzando il proprio io esiste solo il nostro punto di vista, la nostra verità e nient’altro. Non viviamo la fraternità. Teniamo la porta sbarrata anche a Colui che per primo ci cerca e viene incontro. Inoltre, bruciamo ogni possibilità di confronto e di dialogo.
Tutto questo lo possiamo considerare frutto di un individualismo libertario e anarchico che ci deriva dalla crisi della cultura contemporanea, liquida, senza ancoraggi certi. I doveri e i diritti, non hanno un’esistenza obiettiva, universale. Se dei diritti devono esserci essi sono pretese individuali illimitate, senza confini, senza reciprocità. L’arbitrio è scambiato per diritto. Si giunge a rivendicare un diritto all’eutanasia, all’aborto. Tanti dei nostri giovani, ma non solo, pensano che esistano questi falsi diritti. È certo che chi considera l’aborto un diritto non lo ritiene un peccato e, pertanto, non ritiene di confessarlo. Bisogna che lo diciamo chiaro: non esiste un diritto all’aborto, anche se esistono leggi, come in Italia, che regolamentano questo triste fenomeno, che non deve inorgoglire le nostre società occidentali, gonfie di superbia e sempre più misere dal punto di vista demografico ed economico. Cari fedeli, per noi credenti in Cristo esiste il peccato dell’aborto. È tra le colpe gravissime che, in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, i confessori hanno la facoltà di perdonare. Evidenziamolo nei formulari predisposti per la preparazione alla Confessione, come anche i peccati relativi all’ambiente.
Viviamo, dunque, quest’Anno Santo facendo l’esperienza della Misericordia di Dio. Inondiamo il mondo della sua tenerezza.
L’incontro personale e comunitario con Dio, che ci perdona e risuscita, ci porta naturalmente verso una visione di uomo non autoreferenziale e non prometeico. L’uomo ha bisogno di Dio, perché è stato creato per vivere non in maniera solipsista, in una torre d’avorio, bensì in comunione con Lui, di Lui, per Lui. Togliendo Dio è tolta la sua parte migliore. È renderlo monco, incompiuto. Il criterio di realtà ci fa, invece, riconoscere creature di Dio, bisognose della sua redenzione.
L’esperienza dell’amore e del perdono di Dio ci trasfigura. Infatti, accogliendo la misericordia di Dio Padre ci riconosciamo figli e insieme fratelli dei nostri simili, riuniti in una stessa famiglia.
L’indifferenza, l’odio, la spietatezza possono essere vinti allorché ci si percepisce proprio così. Sarà più facile, come suggerisce il profeta Isaia, sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri e i senza tetto, vestire chi è nudo, togliere il puntare il dito e il parlare empio, saziare l’afflitto di cuore (Is 58, 6-11).
L’esperienza della misericordia rafforzando la fraternità consolida il senso della giustizia. Chi vede nell’altro un fratello è maggiormente disposto a dargli ciò che gli spetta, a impegnarsi affinché chi è carne della propria carne possa avere ciò che corrisponde alla sua dignità. La misericordia presuppone la giustizia, non la bypassa. La rende più cogente. La sospinge a superare se stessa per diventare una giustizia più commisurata ai figli di Dio.
Viviamo, allora, quest’anno della Misericordia come popolo samaritano che apre il cuore a quanti vivono ai margini della società; come popolo che inonda di vita nuova i molteplici luoghi esistenziali della misericordia, come illustrato nella Lettera pastorale indirizzata dal vescovo a tutti all’inizio di quest’anno pastorale.
Rendiamo le nostre famiglie, le nostre parrocchie, le associazioni e i movimenti ambienti di perdono e di comunione. Maria, Madre della Misericordia, ci accompagni nel porre segni concreti. Ai primi di novembre abbiamo aperto con successo la Scuola di formazione all’impegno sociale e politico per i giovani. Oggi stesso è stato inaugurato il nuovo Centro di Ascolto e Accoglienza della Caritas. A breve sarà aperta la nuova Casa per il clero e per i laici, quale segno tangibile dell’amore nei confronti dei nostri sacerdoti anziani. Ma non dimentichiamo che segni di misericordia, intesa non come semplice assistenza caritativa, debbono essere posti nei vari luoghi esistenziali segnalati nella già citata Lettera pastorale e cioè con riferimento alla famiglia, al mondo del lavoro e dell’economia, della politica, dei mass media, della salute, della scuola e dell’ambiente.
Partecipando all’Eucaristia offriamo il nostro impegno di perdono e di misericordia per far nuove tutte le cose.