Oggi, 25 aprile, la Chiesa ricorda l’evangelista san Marco, patrono di Venezia. Con ogni probabilità egli compose il suo Vangelo a Roma, al tempo in cui era fedele collaboratore di Paolo e di Pietro. Il suo testo è il più antico dei quattro vangeli e tramanda l’eco della predicazione di Pietro. Nel suo Vangelo ritroviamo l’itinerario dei Dodici dopo l’incontro con quel Gesù, di fronte al quale non si poteva fare a meno di chiedersi: «Chi è, dunque, quest’uomo?».
Marco ci conduce a rispondere a tale domanda facendo nostre le parole che per fede scaturirono dal cuore di Pietro. Nel brano di oggi (cf Mc 16, 15-20) abbiamo letto il mandato di Gesù ai suoi discepoli: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato». Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni e le opere che la accompagnavano.
La Chiesa ancora oggi obbedisce a questo mandato del Signore. È un mandato che evidenzia come la sua missione è radicata nel comando di Cristo. Noi credenti riteniamo che, se la Chiesa ha questo grande compito, non l’ha da se stessa, per se stessa. Non se lo attribuisce autonomamente. Le è stato affidato direttamente dal Figlio di Dio, inviato dal Padre. La libertà di svolgere la sua opera di santificazione e di evangelizzazione ha un’origine divina, non è semplicemente umana. L’attestazione di una simile derivazione proviene da Cristo stesso, che agisce lungo i secoli insieme ai suoi discepoli e loro mediante. Siamo di fronte ad una realtà che ci trascende per cui non ci è permesso rapportarci con superficialità sia nel valutarla sia nell’assecondarla. Opporsi a quest’opera di trasmissione della verità non tornerebbe ad onore di nessuno, specie se si è suoi figli. Lungo il tempo, abbiamo assistito a lotte di libertà sia da parte della Chiesa nei confronti di Stati oppressori sia, viceversa, da parte di popoli nei confronti del suo potere temporale.
Oggi, dopo vicende anche dolorose, è possibile comprendere meglio quali debbano essere i rapporti tra Chiesa e comunità politiche, in un equilibrio rispettoso delle singole identità e autonomie, scolpito nell’espressione «libera Chiesa in libero Stato». Il Concilio Vaticano II ha confermato questo principio, riconoscendo però, che entrambe le istituzioni, in un’essenziale collaborazione, pur mantenendosi distinte, sono a servizio della persona umana concreta, per la promozione della sua crescita integrale. Tali rapporti non potranno mai essere definiti una volta per tutte, ma dovranno seguire il tumultuoso procedere delle vicende umane, e quindi essere continuamente rivisti entro l’attuale quadro multietnico e multiculturale.
Anche la libertà del proprio popolo esige di essere coltivata senza mai essere considerata una conquista definitiva.
Oggi siamo qui a celebrare il settantunesimo anniversario della liberazione dell’Italia alla fine dell’ultimo sanguinoso conflitto mondiale, e a ricordare che il prezioso bene della libertà, così faticosamente conquistata, va coltivato in tutti i suoi aspetti di accoglienza reciproca e di fratellanza. Sono queste le basi di una vita civile pacifica ed armoniosa, che è nostro compito difendere e promuovere per noi e le future generazioni. Libertà non significa soltanto rispetto dell’altro: è anche prendersi cura di lui e del creato per riscoprire la sua originale dimensione di casa comune. Celebrando la libertà del nostro Paese, non possiamo non pensare a tutti quei popoli che ancora non l’hanno raggiunta e a quanto questo incida sulla situazione mondiale. Il nostro non è certo il mondo in cui hanno creduto e hanno combattuto i nostri padri e i nostri nonni. Non è il mondo che noi vorremmo: un’agorà aperta, ove si scambiano idee ed esperienze, ove tutti sono liberi di esprimersi e di dare il proprio apporto al bene comune. La libertà è la cosa più bella, ma è anche la più ardua, e dobbiamo meritarla ogni giorno, lottando insieme, dialogando incessantemente, per superare gli squilibri di ogni genere che impediscono a molti di godere di pari opportunità. Di certo il superamento di tali ostacoli può avvenire mediante risposte concertate dalla comunità internazionale. E, tuttavia, non può mancare il nostro contributo quotidiano, con scelte civili di condanna della violenza e di solidarietà verso coloro che decidono di rimanere nel loro Paese. Dobbiamo aiutarli, per quanto possibile. La solidarietà, offerta a casa nostra, dovrà essere volta non solo ad accogliere e ad integrare, ma anche a rendere capaci i profughi a soccorrere, in un domani, i propri fratelli, senza escludere di ritornare in patria, affinché possano godere di una vita laboriosa, libera e democratica.
In questa Eucaristia, preghiamo Cristo. Uniamoci a Lui, che è la Verità che rende liberi e preghiamo lo Spirito perché ci faccia una sola cosa, capaci di vivere la comunione con il Padre e tra noi.