Faenza - Chiesa di San Francesco, 13 giugno 2016
13-06-2016
Le letture della liturgia odierna ci parlano del mandato che Yahweh dà al profeta Isaia di portare il lieto annuncio ai miseri (cf Is 61, 1-3a); e dell’invio, da parte di Gesù, di settanta discepoli a «lavorare sul campo»: «La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai. Pregate, dunque, il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe. Andate: ecco vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada» (Lc 10, 1-9).
Antonio di Padova, nato a Lisbona, cresciuto a Coimbra in una comunità agostiniana, si fece poi francescano. Reduce da un’esperienza missionaria in Marocco, bruscamente interrotta, dedicò la sua vita all’annuncio di Cristo, prima in Emilia-Romagna, a Forlì e a Bologna, vicino a noi, a partire da un’intensa vita eremitica a Montepaolo. Si recò anche a Montpellier, a Tolosa e in altre città francesi, per poi ritornare in Alta Italia, ove concluse precocemente la sua esistenza, a Padova, all’età di trentasei anni.
Come era la sua evangelizzazione? La domanda ci interessa, perché anche noi, presbiteri, religiosi e laici, nel presente contesto di progressiva scristianizzazione, siamo tutti chiamati, come Lui, a ri-evangelizzare le nostre comunità, le nostre famiglie, i gruppi e i singoli. Siamo chiamati ad infiammare le persone di amore per quel Gesù che ci redime e ci rende capaci di amare come Lui ci ha amati, trasfigurando le nostre esistenze, colmandole di gioia e di speranza.
Innanzitutto dobbiamo notare che Antonio non era un evangelizzatore desideroso di mettersi in mostra, quasi come un redentore dell’umanità. Durante i primi anni di vita religiosa, maturò nel nascondimento la sua vocazione francescana, approfondendo la chiamata missionaria, rinvigorendosi mediante l’impegno ascetico e la contemplazione. Stabilitosi in Italia, trascorreva il suo tempo nell’eremo di Montepaolo, alternandosi con i confratelli nei compiti di Marta o di «madre» e di Maria o di «figlio». Chi faceva da «madre», ricopriva il ruolo di Marta, badando alle faccende di casa, al fuoco, alle pulizie, alle questue nei paesi del circondario. Chi faceva da «figlio», ricalcava il comportamento di Maria, vivendo in un luogo appartato, nella preghiera e nella meditazione del Vangelo. Periodicamente, i ruoli si invertivano. I «figli» assumevano le mansioni delle «madri», e viceversa. E così, Antonio, stimato dai suoi confratelli e unico sacerdote nel suo eremo, ebbe anche modo di tenere pulite le poche stoviglie di cucina, di spazzare la casa, di fare la questua per sé e per la sua comunità. Improvvisamente, venne il momento del suo esordio come predicatore. Accadde a Forlì, allorché si trattò di rivolgere parole di incoraggiamento ai candidati agli ordini sacri. I superiori, domenicani e francescani, si erano dimenticati di incaricare un predicatore, per cui si rivolsero ai presbiteri presenti, ma nessuno si sentì in grado di improvvisare in un compito così impegnativo. Tra i convenuti, vi era frate Antonio, sulla cui conoscenza del latino si poteva fare affidamento. Il frate «guardiano» di Forlì riuscì a convincerlo, e Fra Antonio meravigliò e commosse l’uditorio con la profondità della sua cultura biblica, con la sua coinvolgente spiritualità, con le espressioni calde e suadenti che seppe usare.
La missione di Antonio come predicatore – è bene notarlo -, ebbe inizio in un momento di rievangelizzazione della cristianità, perché proliferavano ovunque i movimenti eretici. Nelle città, non era raro che i vari gruppi sociali e anche religiosi si contrapponessero in continue lotte. Frate Antonio si era inserito nel giovane movimento di rifondazione cristiana dei Frati Minori. Ciò richiedeva un impegno nel lavoro apostolico in pianta stabile. Nella sua qualità di predicatore itinerante, si immerse quotidianamente nel contesto sociale, prima della Romagna e poi delle altre Regioni del Nord Italia, a stretto contatto con la popolazione, condividendone l’esistenza, spesso misera e tormentata. Il suo compito di evangelizzatore non si limitava alla catechesi morale-penitenziale. Fu un solerte pacificatore, sia nelle diatribe politiche sia nei dissidi familiari. Combatté l’usura. Si occupò della revisione di statuti comunali. Venne invitato a pronunciare discorsi di riforma della curia papale, a riunioni monastiche, ad assemblee di confratelli, a gruppi di studenti e anche di governanti. In definitiva, seppe anticipare e far vivere ciò che papa Francesco, nel IV capitolo della Evangelii gaudium, ha definito la dimensione sociale della fede.
Apostolo infaticabile, fu pastore di misericordia, indulgente e amorevole, ricco di pazienza con gli erranti, ma anche determinato nel denunciare il male, l’ingiustizia. Proclamava francamente la verità a tutti, popolani o nobili signori. Non indietreggiava davanti allo status di nessuno, neanche a costo della vita. Tuttavia, il suo parlare in pubblico, pur condito con il sale, non mancava mai di dolcezza e di grazia. Era garbato e, in pari tempo, severo, suscitando simultaneamente amore e timore negli ascoltatori (cf Vita secunda, 4, 13-19). È rimasta celebre la sua predica a Bourges, in Francia, ove, alla presenza del clero, apostrofò l’arcivescovo, che si pentì e si confessò dal Santo. Fu ancora più veemente a Verona nei riguardi di Ezzelino da Romano, che sì convertì, pur non giungendo a liberare il conte di san Bonifacio suo prigioniero.
Antonio, che, come predicatore non si peritava di denunciare pubblicamente i mali del suo tempo, deve esserci di esempio. Nel contesto odierno, come credenti e come guide spirituali siamo spesso piuttosto afatici o timorosi nel condannare i mali che rovinano la nostra società e il nostro habitat. Talvolta consideriamo conquiste di civiltà proprio ciò che distrugge il tessuto valoriale della convivenza e, in particolare, la struttura antropologica della famiglia. Si preferisce non disturbare il quieto vivere, per timore di creare scontento o di ferire l’amor proprio delle persone. Si teme di dire pane al pane e vino al vino, perché diminuirebbe il consenso. Si confonde il male con il bene, sino ad ammirare il successo di coloro che coltivano esclusivamente i propri interessi, senza badare alle conseguenze negative per le persone e per l’ambiente.
Antonio è per noi un modello anche come evangelizzatore infaticabile. La sua agenda era fittissima di impegni che lo obbligavano a lunghi e faticosi viaggi con gli incerti mezzi di trasporto dell’epoca. Non si dava tregua, nonostante la precarietà della sua salute. Fu un evangelizzatore «scalzo», concetto amato da papa Francesco, ossia non attaccato al denaro, capace di vivere la povertà in maniera integrale. E, tuttavia, non intendeva la sua vita come quella di una persona che non dà peso alle risorse necessarie per le opere, all’impegno di rendere la fede più pensata ed incarnata nelle istituzioni, nella cultura e negli stili di vita.
Nominato ministro provinciale del Nord Italia oltre all’animazione spirituale, aveva anche la responsabilità del governo e della fondazione di nuove comunità stanziali. Ciò avveniva in un momento di transizione da una forma primitiva e profetica di «frati delle strade» ad una meno itinerante, più strutturata e funzionale ad una pastorale organica e capillare, necessaria ad integrare quella del clero diocesano, allora percepito come assenteista e non aggiornato.
Oltre alla predicazione, si dedicò all’insegnamento della scienza sacra o teologia, che egli definiva unico «canto nuovo». A Padova, fondò lo Studio Francescano, al fine di preparare nuove leve di evangelizzatori, che desiderava formati con una cultura più impregnata di Vangelo. Riteneva necessario che le comunità cristiane e religiose disponessero di istituzioni in grado di approfondire scientificamente i contenuti della fede e i carismi delle varie famiglie religiose.
In questo anno del Giubileo della Misericordia, sant’Antonio ci è particolarmente caro, perché la sua assidua attività di predicatore e di formatore di coscienze non era disgiunta dal ministero della riconciliazione, che esercitava ovunque. Le sue parole suscitavano negli ascoltatori un autentico desiderio di conversione, per cui Antonio, dopo le prediche, si dedicava sempre all’ascolto delle confessioni fino al tramonto del sole, restando spesso a digiuno. Proprio perché comunicatore e oratore eloquente, riusciva a raccogliere attorno al pulpito folle attentissime. Antonio ascoltava le confessioni a tu per tu, divenendo un rivoluzionario della pastorale, che allora non prevedeva tale modalità.
Qual’è il segreto della sua efficacia evangelizzatrice? L’essere uomo di preghiera, con un amore profondamente affettivo nei confronti di Gesù Bambino, la cui predilezione per Antonio può essere attribuita, fra l’altro, alla castità eroicamente vissuta. Non a caso, si rappresenta spesso il Santo con il Bambinello tra le braccia.
Antonio di Padova, nato a Lisbona, cresciuto a Coimbra in una comunità agostiniana, si fece poi francescano. Reduce da un’esperienza missionaria in Marocco, bruscamente interrotta, dedicò la sua vita all’annuncio di Cristo, prima in Emilia-Romagna, a Forlì e a Bologna, vicino a noi, a partire da un’intensa vita eremitica a Montepaolo. Si recò anche a Montpellier, a Tolosa e in altre città francesi, per poi ritornare in Alta Italia, ove concluse precocemente la sua esistenza, a Padova, all’età di trentasei anni.
Come era la sua evangelizzazione? La domanda ci interessa, perché anche noi, presbiteri, religiosi e laici, nel presente contesto di progressiva scristianizzazione, siamo tutti chiamati, come Lui, a ri-evangelizzare le nostre comunità, le nostre famiglie, i gruppi e i singoli. Siamo chiamati ad infiammare le persone di amore per quel Gesù che ci redime e ci rende capaci di amare come Lui ci ha amati, trasfigurando le nostre esistenze, colmandole di gioia e di speranza.
Innanzitutto dobbiamo notare che Antonio non era un evangelizzatore desideroso di mettersi in mostra, quasi come un redentore dell’umanità. Durante i primi anni di vita religiosa, maturò nel nascondimento la sua vocazione francescana, approfondendo la chiamata missionaria, rinvigorendosi mediante l’impegno ascetico e la contemplazione. Stabilitosi in Italia, trascorreva il suo tempo nell’eremo di Montepaolo, alternandosi con i confratelli nei compiti di Marta o di «madre» e di Maria o di «figlio». Chi faceva da «madre», ricopriva il ruolo di Marta, badando alle faccende di casa, al fuoco, alle pulizie, alle questue nei paesi del circondario. Chi faceva da «figlio», ricalcava il comportamento di Maria, vivendo in un luogo appartato, nella preghiera e nella meditazione del Vangelo. Periodicamente, i ruoli si invertivano. I «figli» assumevano le mansioni delle «madri», e viceversa. E così, Antonio, stimato dai suoi confratelli e unico sacerdote nel suo eremo, ebbe anche modo di tenere pulite le poche stoviglie di cucina, di spazzare la casa, di fare la questua per sé e per la sua comunità. Improvvisamente, venne il momento del suo esordio come predicatore. Accadde a Forlì, allorché si trattò di rivolgere parole di incoraggiamento ai candidati agli ordini sacri. I superiori, domenicani e francescani, si erano dimenticati di incaricare un predicatore, per cui si rivolsero ai presbiteri presenti, ma nessuno si sentì in grado di improvvisare in un compito così impegnativo. Tra i convenuti, vi era frate Antonio, sulla cui conoscenza del latino si poteva fare affidamento. Il frate «guardiano» di Forlì riuscì a convincerlo, e Fra Antonio meravigliò e commosse l’uditorio con la profondità della sua cultura biblica, con la sua coinvolgente spiritualità, con le espressioni calde e suadenti che seppe usare.
La missione di Antonio come predicatore – è bene notarlo -, ebbe inizio in un momento di rievangelizzazione della cristianità, perché proliferavano ovunque i movimenti eretici. Nelle città, non era raro che i vari gruppi sociali e anche religiosi si contrapponessero in continue lotte. Frate Antonio si era inserito nel giovane movimento di rifondazione cristiana dei Frati Minori. Ciò richiedeva un impegno nel lavoro apostolico in pianta stabile. Nella sua qualità di predicatore itinerante, si immerse quotidianamente nel contesto sociale, prima della Romagna e poi delle altre Regioni del Nord Italia, a stretto contatto con la popolazione, condividendone l’esistenza, spesso misera e tormentata. Il suo compito di evangelizzatore non si limitava alla catechesi morale-penitenziale. Fu un solerte pacificatore, sia nelle diatribe politiche sia nei dissidi familiari. Combatté l’usura. Si occupò della revisione di statuti comunali. Venne invitato a pronunciare discorsi di riforma della curia papale, a riunioni monastiche, ad assemblee di confratelli, a gruppi di studenti e anche di governanti. In definitiva, seppe anticipare e far vivere ciò che papa Francesco, nel IV capitolo della Evangelii gaudium, ha definito la dimensione sociale della fede.
Apostolo infaticabile, fu pastore di misericordia, indulgente e amorevole, ricco di pazienza con gli erranti, ma anche determinato nel denunciare il male, l’ingiustizia. Proclamava francamente la verità a tutti, popolani o nobili signori. Non indietreggiava davanti allo status di nessuno, neanche a costo della vita. Tuttavia, il suo parlare in pubblico, pur condito con il sale, non mancava mai di dolcezza e di grazia. Era garbato e, in pari tempo, severo, suscitando simultaneamente amore e timore negli ascoltatori (cf Vita secunda, 4, 13-19). È rimasta celebre la sua predica a Bourges, in Francia, ove, alla presenza del clero, apostrofò l’arcivescovo, che si pentì e si confessò dal Santo. Fu ancora più veemente a Verona nei riguardi di Ezzelino da Romano, che sì convertì, pur non giungendo a liberare il conte di san Bonifacio suo prigioniero.
Antonio, che, come predicatore non si peritava di denunciare pubblicamente i mali del suo tempo, deve esserci di esempio. Nel contesto odierno, come credenti e come guide spirituali siamo spesso piuttosto afatici o timorosi nel condannare i mali che rovinano la nostra società e il nostro habitat. Talvolta consideriamo conquiste di civiltà proprio ciò che distrugge il tessuto valoriale della convivenza e, in particolare, la struttura antropologica della famiglia. Si preferisce non disturbare il quieto vivere, per timore di creare scontento o di ferire l’amor proprio delle persone. Si teme di dire pane al pane e vino al vino, perché diminuirebbe il consenso. Si confonde il male con il bene, sino ad ammirare il successo di coloro che coltivano esclusivamente i propri interessi, senza badare alle conseguenze negative per le persone e per l’ambiente.
Antonio è per noi un modello anche come evangelizzatore infaticabile. La sua agenda era fittissima di impegni che lo obbligavano a lunghi e faticosi viaggi con gli incerti mezzi di trasporto dell’epoca. Non si dava tregua, nonostante la precarietà della sua salute. Fu un evangelizzatore «scalzo», concetto amato da papa Francesco, ossia non attaccato al denaro, capace di vivere la povertà in maniera integrale. E, tuttavia, non intendeva la sua vita come quella di una persona che non dà peso alle risorse necessarie per le opere, all’impegno di rendere la fede più pensata ed incarnata nelle istituzioni, nella cultura e negli stili di vita.
Nominato ministro provinciale del Nord Italia oltre all’animazione spirituale, aveva anche la responsabilità del governo e della fondazione di nuove comunità stanziali. Ciò avveniva in un momento di transizione da una forma primitiva e profetica di «frati delle strade» ad una meno itinerante, più strutturata e funzionale ad una pastorale organica e capillare, necessaria ad integrare quella del clero diocesano, allora percepito come assenteista e non aggiornato.
Oltre alla predicazione, si dedicò all’insegnamento della scienza sacra o teologia, che egli definiva unico «canto nuovo». A Padova, fondò lo Studio Francescano, al fine di preparare nuove leve di evangelizzatori, che desiderava formati con una cultura più impregnata di Vangelo. Riteneva necessario che le comunità cristiane e religiose disponessero di istituzioni in grado di approfondire scientificamente i contenuti della fede e i carismi delle varie famiglie religiose.
In questo anno del Giubileo della Misericordia, sant’Antonio ci è particolarmente caro, perché la sua assidua attività di predicatore e di formatore di coscienze non era disgiunta dal ministero della riconciliazione, che esercitava ovunque. Le sue parole suscitavano negli ascoltatori un autentico desiderio di conversione, per cui Antonio, dopo le prediche, si dedicava sempre all’ascolto delle confessioni fino al tramonto del sole, restando spesso a digiuno. Proprio perché comunicatore e oratore eloquente, riusciva a raccogliere attorno al pulpito folle attentissime. Antonio ascoltava le confessioni a tu per tu, divenendo un rivoluzionario della pastorale, che allora non prevedeva tale modalità.
Qual’è il segreto della sua efficacia evangelizzatrice? L’essere uomo di preghiera, con un amore profondamente affettivo nei confronti di Gesù Bambino, la cui predilezione per Antonio può essere attribuita, fra l’altro, alla castità eroicamente vissuta. Non a caso, si rappresenta spesso il Santo con il Bambinello tra le braccia.