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La gioia di appartenere al popolo di Dio (Is 66, 10-14c).
Nel primo brano ci viene descritta Gerusalemme, non solo quale città ma soprattutto come popolo di Dio. L’invito è quello di rallegrarsi di appartenere ad un simile popolo. Questo è costruito da Dio, è ricomposto da Lui, dopo la schiavitù. Non ci dev’essere più lutto. La città-popolo di Dio è il luogo della consolazione. Appartenendo ad esso si è saziati. Isaia sollecita: esultate, sfavillate; come esulta e sfavilla di gioia il bimbo che è allattato, portato in braccio e accarezzato sulle ginocchia dalla madre, così voi. Immagini stupende, familiari, che intendono suscitare in chi appartiene alla Chiesa, prefigurata da Gerusalemme, giusto orgoglio, gioia di vivere in essa. Viene subito spontanea la domanda. Noi, credenti di oggi, sentiamo gioia nell’appartenenza al popolo di Dio, siamo sfavillanti di gioia. Ci sentiamo orgogliosi di essere Chiesa? Oppure siamo tristi, incupiti, scoraggiati? Le preoccupazioni della comunità parrocchiale sono anche le nostre, oppure viviamo come estranei, come persone che lasciamo agli altri le responsabilità dell’evangelizzazione? La Chiesa deve essere nel mondo contemporaneo principio di vita nuova, lievito che fa fermentare la pasta. Come cristiani viviamo rassegnati, nel sottobosco della storia?
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La seconda Lettura (Gal 6, 14-18), tramite le parole dell’apostolo Paolo ci spiega perché bisogna essere orgogliosi di essere di Cristo, di appartenere al suo Corpo, che è la Chiesa. Grazie alla conformazione a Lui, all’assunzione della sua croce, facendola nostra, godiamo di una vita piena. La croce di Cristo prima che lotta al male, opposizione strenua al peccato, è dono totale di sé, è amore fedele, è impegno a far nuove tutte le cose. Chi è battezzato e appartiene a Cristo condivide il suo Spirito di amore e la sua croce, come stile di vita. Per mezzo della croce, dono totale di sé al Padre, sino a morire, il mondo, tutte le attività umane sono vissute con Gesù, in Lui, per Lui. Portare le stigmate di Gesù sul nostro corpo, come dice san Paolo, vuol dire che tutta la nostra esistenza è dedicata all’amore, all’apposizione al male, alla trasfigurazione delle relazioni interpersonali, delle nostre famiglie, delle città. Il frutto di una vita spesa così è la pace, che regna nei nostri cuori. Il discepolo è colmo della vita di Cristo. Dobbiamo domandarci: la nostra vita di credenti porta in sé i segni dell’amore e dell’impegno di Cristo? È provocazione alla conversione, a schierarsi dalla sua parte? Siamo cioè sale che dà sapore o sale insipido, che merita solo di essere gettato via, perché non serve a nulla?
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Il Vangelo di Luca presenta Gesù che invia settantadue discepoli nei villaggi dove sta per recarsi, affinché predispongano l’ambiente. È questa una particolarità dell’evangelista Luca, il quale sottolinea che la missione non è riservata ai dodici Apostoli, ma estesa anche ad altri discepoli. Infatti – dice Gesù – «la messe è molta, ma gli operai sono pochi» (Lc 10, 2). C’è lavoro per tutti nel campo di Dio. Ma Cristo non si limita ad inviare: Egli dà anche ai missionari chiare e precise regole di comportamento. Anzitutto li invia «a due a due», perché si aiutino a vicenda e diano testimonianza di amore fraterno. Li avverte che saranno «come agnelli in mezzo a lupi»: dovranno cioè essere pacifici nonostante tutto e recare in ogni situazione un messaggio di pace. Detto altrimenti, i discepoli di Cristo subiranno prove e persecuzioni. E non potranno contare sul potere che usa la violenza. I loro mezzi saranno quelli spirituali. Inoltre, non porteranno con sé né vestiti né denaro. Vivranno di ciò che la Provvidenza offrirà loro. Per il sostentamento e l’ospitalità il missionario dipende completamente dall’accoglienza o meno del suo annuncio. Se non è ospitato e rifocillato abbandoni i suoi ospiti e scuota la povere dai calzari per restituirla. Cerchi altri che, condividendo il suo annuncio, sono disposti a nutrirlo, a dividere i beni che hanno. Dove saranno rifiutati mettano, però, in guardia circa la responsabilità di respingere il Regno di Dio. I discepoli si prenderanno cura dei malati, rimetteranno i peccati come segno della misericordia di Dio. San Luca mette in risalto l’entusiasmo dei discepoli per i buoni frutti della missione, e registra l’espressione di Gesù: «Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi: rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20). Detto altrimenti, non rallegratevi perché siete capaci di scacciare il diavolo, ma perché siete associati all’iniziativa di Dio che redime il mondo e costruisce una nuova cittadinanza sulla terra. Il Vangelo di oggi risvegli in tutti i battezzati la consapevolezza di essere missionari di Cristo, chiamati a preparargli la strada con le parole e con la testimonianza della vita. Non viviamo solo per noi stessi, ma per Cristo!