Faenza, cattedrale, 2 venerdì santo 2021
L’evangelista Giovanni nel racconto della Passione di nostro Signore Gesù Cristo non ci descrive solo i momenti salienti che lo riguardano mentre è catturato, interrogato, processato, consegnato ai Giudei che lo crocifiggono. Giovanni, il discepolo prediletto dal Signore, ci fa soprattutto comprendere come il Figlio dell’uomo vive interiormente la Passione. Gesù non fugge. Sapendo tutto quello che doveva accadergli, si consegna al gruppo di soldati e di guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei. Si consegna senza alcuna resistenza, dicendo a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
Nel nuovo messale, nel secondo canone della preghiera eucaristica si dice chiaramente: «Egli, consegnandosi volontariamente alla passione…».
Gesù ha ben presente la missione che è venuto a compiere. Egli intende portarla a termine. L’abbraccia con tutto se stesso, con determinazione, con tutto il suo amore per il Padre e per l’umanità, che è venuto a redimere dal peccato, cambiandole il cuore. Il Figlio si è fatto «carne», uomo, per donargli la forza di opporsi al male, che separa da Dio, e di vivere in comunione con il Padre.
Gesù è cosciente di quanto sta vivendo anche negli ultimi momenti di sofferenza atroce prima di morire, e proferisce: «Tutto è compiuto». Quanto detto da Gesù sulla croce, prima di reclinare il capo e spirare, non significa che «la fine è giunta», ma che «la volontà del Padre è stata realizzata in tutto e per tutto da Lui, in maniera definitiva.
Dunque, Gesù compie una nuova alleanza tra Dio e l’umanità, pone la legge di Dio nel cuore dell’uomo scrivendola in esso, incomincia a gettare fuori dal mondo il principe del male. Mentre viene innalzato da terra sulla croce attira tutti a sé (cf Gv 12, 20-33). Anche nella passione narrata dall’evangelista Marco, Gesù, nel Getsemani, preso da un’angoscia mortale, chiede e prega che passi da Lui l’«ora» della morte: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice. Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». In altre parole, Gesù non cerca la morte di croce. Non vuole in primo luogo la crocifissione. Ciò che egli si ripropone è di amare, costi quel che costi, il Padre, e di restare fedele alla sua volontà. La crocifissione e la morte, nella passione di Gesù, sono conseguenze o, meglio, effetti «collaterali» – non voluti direttamente: usiamo questa espressione per farci intendere meglio -, della sua ferma e irrevocabile decisione di essere fedele al Padre, nel portare a compimento la redenzione dell’umanità.
Il Padre desidera dal Figlio il suo amore. Dio non desidera la sofferenza del Figlio e la sua morte. Il sacrificio richiesto a Gesù è una vita di amore pieno, che sa accogliere tutto come dono, nella gioia e nel dolore, continuando ad amare in ogni caso. L’impegno di chi ama come Gesù Cristo, è amare, lodare, affidandosi a Dio in ogni momento della propria vita, ance se oppressi dal dolore, come ha fatto Gesù nel cammino della croce e sulla croce.
È in questo contesto che possiamo trovare la risposta agli interrogativi di non poche persone, che confessano, specie a fronte di genitori o parenti gravemente ammalati, che non riescono ad accettare e a comprendere le loro sofferenze. Dio non può volere le sofferenze dei suoi figli. Non può rimanere impassibile. Sarebbe crudele.
Come ci insegnano le narrazioni della Passione di Gesù, il Padre non desidera la nostra sofferenza, come quella del Figlio, bensì il nostro amore. Questo sì. Dio, quando siamo sofferenti desidera che noi continuiamo ad amarlo, che facciamo dono di noi stessi e della nostra sofferenza, trasfigurandola in un atto di amore per Lui, abbandonandoci tra le sue braccia. La sofferenza, che prima o poi, incontriamo sulla nostra strada, può essere il luogo ove incontriamo Cristo stesso, Colui che ha saputo trasformare la sua sofferenza in un atto d’amore a Dio e all’umanità. È in questo momento che può nascere in noi il desiderio di unirci a Cristo sofferente per amore del Padre e dell’umanità. Come san Paolo anche noi potremo sentire il bisogno di completare nella nostra carne quello che manca alle sofferenze di Cristo per il suo Corpo che è la Chiesa.
Di fronte a Cristo morto in croce diciamogli grazie per essersi incarnato nei nostri dolori e nella nostra stessa morte. Egli li prende su di sé e dà a loro un nuovo senso. Egli li redime e li trasfigura. Li rende un luogo di incontro con Lui e di partecipazione alla sua opera di salvezza.
+ Mario Toso