OMELIA per la CHIUSURA della SETTIMANA di preghiera per l’UNITA’ dei CRISTIANI

25-01-2017
Gli Atti degli Apostoli, scritti da Luca, ci presentano la memorabile conversione di san Paolo (At 9, 3-16), l’apostolo delle genti per eccellenza. A che cosa è dovuto il cambiamento radicale della sua vita? Dalla narrazione di Luca emerge che Paolo è stato trasformato in apostolo di Cristo non da un pensiero, da una dottrina ma da un evento, da un incontro imprevisto ed improvviso con il Risorto. Il Cristo gli appare come una luce sfolgorante che lo sbalza da cavallo, gli parla, lo cambia al punto da considerare insensato, spazzatura, tutto ciò che stava compiendo con furore contro la Chiesa e i cristiani (cf Fil 3, 7-8). Il fondamento della sua nuova vita e del suo apostolato è l’esperienza dell’incontro forte ed immediato con il Risorto, non tanto un processo psicologico, una maturazione lenta o un’evoluzione intellettuale e morale graduale del suo «io», il risultato di uno sforzo personale. La svolta data alla sua vita non è causata propriamente da Paolo stesso, bensì dall’esterno, da Cristo che lo fa cadere a terra con violenza e gli si manifesta, chiamandolo per nome e rimproverandolo: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Alla domanda di Paolo: «Chi sei, o Signore?», Cristo gli risponde: «Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti!». È Cristo Risorto che lo afferra e lo ferma sulla via di Damasco e a provocare in lui un radicale rinnovamento, a farlo vivere un’altra vita, al punto da fargli scrivere nella lettera ai Galati: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
È così che Paolo inizia ad essere apostolo, ministro della riconciliazione, annunciatore e testimone, «prigioniero» di Cristo. Sappiamo, però, che Paolo «impara» ad essere apostolo, a crescere come apostolo, nonostante l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, entrando nella comunione della Chiesa che perseguitava con ferocia. Si fa battezzare, vive in sintonia con  gli altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli può essere vero apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinzi: «Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto» (15, 11). C’è un solo annuncio del Risorto, perché Cristo è uno solo. C’è una sola appartenenza primaria. È a Lui che si appartiene in primo luogo,  non ai vari annunciatori od apostoli. Non si può dire, come ammonisce lo stesso Paolo, «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». E questo perché, spiega l’apostolo, non è Apollo, Cefa e Paolo a salvare, a battezzare, ma solo Cristo (1 Cor 1, 10-13.17). Il ministro della riconciliazione di Cristo, l’annunciatore non può vantarsi e mascherarsi come redentore, non può considerarsi un superapostolo come fanno taluni. Egli dev’essere umile e riconoscere la sua pochezza, il bisogno di essere egli stesso salvato da Cristo. Così l’apostolo si esprime a proposito di Cristo suo redentore: «Di Lui io mi vanterò! Di me stesso non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze» (2 Cor 12, 5-6).
Non sempre nelle nostre comunità si tiene presente che l’opera evangelizzatrice dev’essere frutto di un incontro reale con Cristo, un incontro rinnovato, approfondito, permanente; dell’essere affascinati da Lui; di un lavoro apostolico comunitario, non individualistico. Occorre crescere nella comunione con Cristo, vivendo Lui, il suo Amore, sino ad esserne totalmente posseduti. Tutto questo è fondamentale anche per praticare un autentico ecumenismo. Le Chiese non debbono sostituirsi a Cristo e consegnarne solo una piccola parte agli uomini, ma debbono portare a Lui tutt’intero, alla condivisione della sua pienezza. Esse sono chiamate a far convergere i credenti nell’esperienza forte della comunione con Lui e tra le comunità. Unite in Cristo, partecipano alla sua stessa missione. Le divisioni rendono meno luminosa ed efficace la testimonianza a Cristo, perché le genti sono chiamate, in Gesù Cristo, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso ed unico corpo.
Si conclude oggi la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. “L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione” è il motto biblico che ci è stato proposto. Chi condivide l’amore di Cristo, ossia quell’amore che Egli ha avuto ed ha per noi, si trova ad essere sollecitato alla riconciliazione con i propri fratelli. Entra in quel movimento di comunione che Gesù ha vissuto e realizzato per noi: la comunione degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro. La riconciliazione è dono di Gesù e sorgente di vita nuova tra i cristiani che si sono divisi. La comunione nello stesso amore di Cristo è la base per l’ecumenismo. Non esiste un vero ecumenismo senza crescere nell’amore di Cristo. Solo l’unità nell’amore di Cristo consente di essere un solo corpo e un solo spirito, di avere un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti (cf Ef 4, 4-6).
Nella nostre preghiere in questa Eucaristia mettiamo, dunque, l’intenzione di riconciliarci con i nostri fratelli cristiani, accrescendo l’amore a Cristo, convertendoci sempre di più ad esso, che ci unifica col Padre e tra di noi. Nella misura in cui ci lasciamo colmare dall’amore di Cristo potremo non solo compiere importanti passi di riconciliazione tra le chiese divise, ma diventare testimoni della riconciliazione in un mondo che ha bisogno di «ministri» di riconciliazione, che abbattano barriere, costruiscano ponti, facciano la pace. Con quanta più stretta comunione saremo uniti col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, con tanta più intima e facile azione potremo accrescere la mutua fraternità.