OMELIA per la FESTA di SAN PIER DAMIANI, patrono secondario della città e diocesi

Faenza - cattedrale, 21 febbraio 2017
21-02-2017

La Provvidenza ha dato a questa città e alla nostra Diocesi come patrono una grande personalità di studioso, di eremita, di uomo di Chiesa, il quale è oggi ricordato da tutti noi soprattutto perché fu innamorato di Cristo. Ne conserviamo le spoglie. Ed è avvenuto perché un’improvvisa malattia, che lo colse durante il viaggio di ritorno da Ravenna – ove si era recato per ristabilire la pace con l’Arcivescovo locale, che aveva appoggiato l’antipapa, provocando l’interdetto sulla città -, fu costretto a fermarsi a Faenza. Qui, nel monastero benedettino di Santa Maria Vecchia fuori porta, morì nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1072. Le sue spoglie mortali vennero in seguito traslate in questo duomo, ove le vediamo e le veneriamo in uno degli altari laterali.

Cari fratelli e sorelle, è una grande grazia che nella nostra cattedrale abbiamo costantemente sotto gli occhi l’urna che contiene le reliquie insigni di una personalità così esuberante, ricca e complessa, come quella di san Pier Damiani. Egli fu, in particolare, un riformatore della Chiesa, con la sua parola, il suo esempio, la sua autorevolezza. Con il suo ardore, e attraverso le varie missioni che gli affidarono i papi, contribuì a renderla più evangelica, più missionaria, più degna del suo Fondatore, meno schiava del potere temporale. Il santo cardinale, che mai accettò volentieri di essere un porporato, tant’è che alla fine ottenne da papa Alessandro II di ritornare ad essere eremita, può essere considerato un modello di vita cristiana e di missionario.

La poliedricità e la significatività della sua persona per la Chiesa e il nostro tempo inducono a presentarne la bella figura, assieme a quella di altri santi faentini, ai nostri giovani, specie durante il prossimo Sinodo dedicato ad essi.

Ma occorre spiegare di più e meglio perché siamo indotti a guardare a san Pier Damiani come modello di credente e di testimone luminoso del Vangelo.

Penso che dobbiamo guardare a lui anzitutto perché nella sua vita seppe realizzare una felice sintesi tra vita eremitica, contemplativa e attività pastorale. È soprattutto di questo che noi – impegnati a far nuova la nostra Chiesa, mediante una conversione pastorale, quale ci è raccomandata da papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium –, abbiamo bisogno. Si può diventare comunicatori di una fede intensa se prima si è capaci di vivere intimamente con l’Inviato dal Padre, Gesù Cristo.

Sappiamo che san Pier Damiani fu eremita, anzi l’ultimo teorizzatore della vita eremitica nella Chiesa latina. Ma perché si è fatto eremita nel bel mezzo di una vita professionale che cominciava a dargli successo e un discreto tenore di vita? In lui era prepotente il desiderio di incarnare nella sua esistenza la radicalità evangelica, di amare Cristo sopra ogni cosa, senza riserve. Una simile spiritualità era, peraltro già felicemente omologata nella Regola di san Benedetto, che egli conosceva bene: «Nulla, assolutamente nulla, anteporre all’amore di Cristo».

Per realizzare il suo sogno spirituale, il rinomato maestro di arti liberali, sollecitato da due eremiti che egli aveva ospitato, entrò nell’eremo di Fonte Avellana. Dopo pochi anni è già priore e redige una Regola in cui sottolinea fortemente il «rigore dell’eremo». Questo doveva essere organizzato in modo tale da essere luogo di silenzio, preghiera, di prolungati ed austeri digiuni, di generosa carità e di obbedienza piena al priore. La vita eremitica era chiamata a condurre, attraverso soprattutto la meditazione della Sacra Scrittura, al colloquio con Dio, all’intimità con Lui. San Damiani giunse a definire la cella dell’eremo come «parlatorio ove Dio conversa con gli uomini».

Anche il semplice credente, che non è eremita, ha lo stesso fine. Per questo, Benedetto XVI, presentando la figura di san Pier Damiani nell’Udienza generale del 9 settembre 2009, ebbe a dire agli astanti: «Questo risulta importante oggi pure per noi, anche se non siamo monaci: saper fare silenzio in noi per ascoltare la voce di Dio, cercare, per così dire un “parlatorio” dove Dio parla con noi. Apprendere la Parola di Dio nella preghiera e nella meditazione è la strada della vita».

San Pier Damiani, che sostanzialmente fu un uomo di preghiera, di meditazione, di contemplazione, fu anche un fine teologo: un teologo che, però, non si estraniava dalla realtà quotidiana. Sapeva tradurre il dialogo d’amore della Trinità, che raggiungeva nell’estasi, e approfondiva con la ragione, nella vita comunitaria dei suoi eremi. Così, la sua meditazione sulla figura di Cristo crocifisso aveva riflessi pratici significativi. L’amore per la Croce di Cristo, a cui era dedicato l’eremo di Fonte Avellana, l’affascinava, e per lui era il principio, la cartina tornasole di una vita cristiana autentica. Soleva ripetere: «Non ama Cristo, chi non ama la croce di Cristo» (Sermo XVIII, 11, p. 117). Egli si qualificava così: «Petrus crucis Christi servorum famulus – Pietro servitore dei servitori della croce di Cristo» (Ep, 9, 1).

Come ricordato all’inizio, san Pier Damiani seppe raggiungere una meravigliosa sintesi fra vita eremitica e vita pastorale. L’intima unione con Cristo, l’amore per Lui, lo rese disponibile per la riforma della Chiesa, vincendo la sua ritrosia ad uscire dal monastero, obbedendo ai papi che lo incaricavano di missioni importanti. Egli desiderava che l’immagine di una Chiesa «santa ed immacolata», si incarnasse nella realtà del suo tempo. Non esitò a denunciare lo stato di corruzione esistente nei monasteri e tra il clero, a motivo, soprattutto della prassi del conferimento, da parte delle Autorità laiche, dell’investitura degli uffici ecclesiastici: diversi vescovi ed abati si comportavano da governatori dei propri sudditi più che da pastori d’anime.

Egli, dunque, si consumò, con lucida coerenza e grande severità, per la riforma della Chiesa e della vita cristiana. Donò tutte le sue energie spirituali e fisiche a Cristo e alla Chiesa, restando però sempre, come amava definirsi Pietro, ultimo servo dei monaci.

Partecipando all’Eucaristia, non dimentichiamo che la comunione con Cristo che muore e risorge impegna non solo i monaci, i preti e i vescovi, ma tutti i battezzati nel far nuove tutte le cose, a cominciare dalla propria vita, dalla stessa Chiesa