MESSA CRISMALE

Faenza, Cattedrale giovedì 18 aprile 2019

L’odierna liturgia, oltre a ricordarci che, con la morte e risurrezione di Cristo, siamo stati costituiti sacerdoti per il suo Dio e Padre (cf Ap 1, 5-8), ci dice che Gesù è il vero e perenne soggetto dell’evangelizzazione.

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Questa missione di Cristo continua nello spazio e nel tempo, attraversando secoli e continenti. È un movimento che parte dal Padre e, con la forza dello Spirito, va in particolare verso tutti coloro che sono poveri, sia materialmente che spiritualmente. La Chiesa è lo strumento primo e necessario di questa opera di Cristo, perché è a Lui unita come un corpo al capo. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Così dice il Risorto ai discepoli, aggiungendo, mentre soffia su di loro: «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22). Cristo, principale soggetto dell’evangelizzazione del mondo, ha voluto trasmettere alla Chiesa la propria missione. Lo ha fatto, e continua a farlo sino alla fine dei tempi, infondendo lo Spirito Santo nei suoi discepoli. E così, dona alla Chiesa la sua forza di «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», di «rimettere in libertà gli oppressi» e di «proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19). Nel Vangelo di Luca, in definitiva, ci viene detto che la parola del profeta Isaia (Is 61, 1-3a.6a.8b-9) si fa carne. Con la sua nascita, Gesù, divenendo uomo come noi, si inserisce nel solco dei profeti. Come assume l’umanità, assume i profeti e li incarna in sé.  Vediamo in che modo. Venuto a Nàzaret, dove era cresciuto, secondo il suo solito, entrando di sabato nella sinagoga, si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa. Apertolo, trovò il passo che dice: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolto il rotolo, lo riconsegnò, sedette e cominciò a dire: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Detto diversamente, la profezia di Isaia trova incarnazione in Gesù, è storicizzata in Lui, il sommo Profeta. Con la sua venuta tra noi, inserendosi nella storia, Dio viene a togliere tutto ciò che impedisce la fioritura dell’uomo. Si schiera da parte degli ultimi, mai con gli oppressori. Il Figlio di Dio viene come fonte di vite libere, incominciando da quella dei prigionieri. Viene non tanto per riportare i lontani a Dio, bensì per portare Dio ai lontani, a uomini e donne senza speranza, ed aprirli a tutte le loro potenzialità di vita, di lavoro, di creatività, di relazione, di intelligenza, di amore.

Ritorniamo al compito che Cristo affida a noi, suoi discepoli e sua Chiesa. Affida la sua missione di liberazione a noi, costituiti in comunione con Lui e tra di noi. Ci fa capire che Egli non fa scendere perpendicolarmente la sua luce e la sua salvezza sui singoli individui, ma agisce nella comunione dei credenti, unificati in Lui. Il nostro Signore Gesù desidera che il servizio della salvezza e della divinizzazione del mondo sia svolto dagli uomini, ossia da noi riuniti in un popolo. Egli ci cristianizza mediante il servizio di una comunità: degli uni per gli altri e degli uni con gli altri. Essere comunità che evangelizza e libera  significa sempre e in primo luogo essere credenti che si liberano dalle catene dell’egoismo e che entrano nel grande dinamismo di fondo che ci vuole viventi gli uni per gli altri.[1] Ma allora dobbiamo chiederci: come faremo ad attuare la missione universale di Cristo, se ci rinchiudiamo nei nostri territori e in molte parti d’Europa stiamo divenendo Chiesa «più piccola»? È evidente, infatti, che stiamo abbandonando non pochi edifici, che erano stati eretti in tempi più floridi. Stiamo ristrutturando le parrocchie, connettendole in «unità pastorali» in termini non statici bensì dinamici, relazionali, sinodali. Ma, come comunità «più piccola», siamo, per conseguenza, chiamati a sollecitare con maggior forza l’iniziativa di tutti i componenti. Pensiamo, ad esempio, al Sinodo dei giovani. Certamente, saranno necessarie nuove forme di ministero, su cui siamo già chiamati a riflettere, a scegliere, a formare. Ma, accanto a queste forme è innegabilmente indispensabile la figura del presbitero. Nonostante tutti i cambiamenti che si possono presumere, la Chiesa ritroverà con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che sempre è stato il suo centro: la fede nel Dio uno e trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, con l’assistenza dello Spirito, che non le mancherà sino alla fine dei tempi. Con crescente evidenza, la nostra sarà allora una Chiesa più spirituale, più missionaria, più semplificata, più capace di guardare dentro se stessa per essere, con la sua fede, sempre più connessa alla vera «pietra angolare», che è Gesù Cristo. Nel contesto di una comunità parrocchiale, che cura le relazioni fraterne e vive esperienze di formazione e incontro anche attraverso «piccole comunità», il presbitero, come un fratello maggiore. accompagna, incoraggia, si fa segno della carità del Buon Pastore. E così, sarà sempre più «formatore dei formatori», e sempre meno gestore diretto delle varie attività. Sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto, e più l’uomo della comunione. Avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano e camminano insieme, all’interno di un comune progetto pastorale. Sarà meglio che, di qui in avanti, il presbitero concentri le sue energie sulla formazione dei catechisti di fanciulli, ragazzi, giovani, famiglie, e dei ministri della Parola, piuttosto che accollarsi direttamente tutta la catechesi e la guida dei gruppi biblici e di «piccole comunità», per quanto alcuni contatti diretti siano utili sia a lui che  ai laici. Sarà meglio che concentri il suo impegno nella formazione di operatori nel campo della carità, della malattia, dell’emarginazione, più che intervenire direttamente con iniziative più o meno generose, per quanto alcuni contatti diretti con le diverse povertà lo aiutino a mantenere il polso della situazione. Avremo modo nel prossimo anno pastorale di ritornare su questi temi urgenti, ma qui appena lambiti. Poiché la Chiesa, di per sé, non è né una monarchia né una democrazia, basti qui semplicemente ricordare che il prete non è colui che tutto assorbe e accentra, né un semplice coordinatore. La Chiesa è «sinodo», esperienza ove laici, diaconi e pastori devono camminare insieme, ciascuno secondo le proprie competenze. Il sacerdote non è colui che possiede, ma colui che presiede l’evangelizzazione.[2]

In questa celebrazione eucaristica, oltre a ricordare i vari giubilei ed anniversari, facciamo memoria dei sacerdoti defunti della nostra diocesi: Don Alfio Alpi, Mons. Germano Pederzoli, Mons. Roberto Fortunato Brunato, Mons. Antonio Taroni. Per concludere, traggo dal testamento spirituale di quest’ultimo alcune affermazioni, che mi paiono utili a renderci più «sinodali» e più audaci:

«Nel ricordino della mia prima messa avevo scelto la frase di Giovanni: “Per rendere testimonianza alla verità”. Forse è stata un po’ presuntuo­sa. Ma mi ha sempre commosso la passione di Gesù che praticamente inizia con quella frase. Sono sempre andato dove i superiori mi hanno mandato. Avrei voluto impegnarmi di più per testimoniare la sua verità. Non ho avuto il coraggio di lottare da solo. Ho cercato di camminare insieme con la Chiesa ascoltando le direttive sempre impor­tanti e capaci di aprire speranze per il futuro. Ma una sorta di reazione al cambiamento ha reso difficile la loro applicazione».

Ecco la preghiera «sinodale» con cui conclude il suo testamento spirituale, preghiera che possiamo fare nostra:

«Ti ringrazio, Signore,

per le comunità che mi hai fatto incontrare

Ti ringrazio, Signore,

per le persone che le compongono

Ti ringrazio, Signore,

per le cose che abbiamo fatto insieme

Ti ringrazio, Signore,

per le testimonianze di fede ricevute

Ti ringrazio, Signore,

per le sofferenze che abbiamo condiviso

Ti ringrazio, Signore,

per le amicizie che mi hai fatto trovare:

le metto nelle tue mani

perché tu le custodisca e le rafforzi.

In ogni situazione e circostanza,

il tuo amore sia la nostra speranza

e gli amici la nostra forza».

[1] Cf Benedetto XVI, Vedere l’amore. Il mio messaggio per il futuro della Chiesa, Rizzoli, Milano 2017, pp.124-125; 162-165.

[2] Cf Erio Castellucci, Non temere piccolo gregge, Cittadella Editrice, Assisi 2013, pp. 74-75.

+Mario Toso