Il profeta Gioele ci sollecita ad un cammino di conversione personale e comunitaria. Tutti – piccoli e grandi, presbiteri, christifideles laici, religiosi e religiose, famiglie e comunità parrocchiali – siamo chiamati a ritornare a Dio con il cuore, e non con pose, non con atteggiamenti teatrali, con gesti meramente esteriori. Occorre cambiare, prima di tutto il centro della nostra persona, i nostri pensieri, la mentalità, i sentimenti e, poi, le azioni nei confronti di Dio e del prossimo. In sostanza dobbiamo diventare persone sempre più buone dentro. Dobbiamo essere giusti non per essere ammirati, per ricevere il plauso degli altri, la loro approvazione. Il bene va compiuto non per interesse, bensì perché il bene è bene. La nostra perfezione morale e spirituale sta nell’attuare il bene per amore di Dio, non perché ce ne viene un tornaconto.
L’elemosina, ossia la nostra offerta a Dio e ai poveri, non va praticata facendoci pubblicità, facendo suonare la tromba per attirare l’attenzione della gente. Gesù, invece, chiede addirittura il distacco della stessa persona dal suo gesto, perché l’offerente diventi ignoto, sconosciuto al pubblico. Il gesto dell’elemosina dev’essere esclusivamente per amore del Padre. Così, il Signore esorta a non pregare pubblicamente, come fanno gli ipocriti, in piedi nelle chiese, agli angoli delle piazze, per farsi vedere e ricavarne una buona reputazione. Egli esorta, piuttosto, a pregare nel segreto della propria stanza, per aprire il cuore al Padre, perché Lui veda ciò che è nascosto in esso. La preghiera dev’essere destinata soltanto a lodare e a supplicare il Padre, a consegnare il cuore a Lui, non a fare mostra di sé. Cristo non si oppone certamente alla preghiera pubblica, ma alla sua strumentalizzazione, per farsi ammirare. Dio non ascolta coloro che usano tante parole e ripetono preghiere all’infinito, perché Egli sa ciò di cui abbiamo bisogno prima ancora che apriamo bocca. Non bisogna forzare la mano al Padre con molte preghiere e gesti. Si tratta, invece, di aprirgli il cuore e di avere fiducia in Lui. Anche il digiuno va vissuto nel «nascondimento», al pari dell’elemosina e della preghiera. Quando si digiuna non si deve mostrare un volto emaciato, assottigliato, per far capire agli altri quanto soffriamo. L’importante è invece che digiunando ci ricordiamo di Dio e gli facciamo spazio nella nostra vita.
Si è detto che Gioele invita sia i singoli sia il popolo intero alla conversione, nell’immedesimazione con il con l’Uomo Nuovo, venuto in questo mondo per realizzare una nuova creazione. Cosa vuol dire, più in concreto, che il popolo intero deve convertirsi e partecipare alla Pasqua di Gesù Cristo? Significa che come comunità diocesana siamo chiamati a partecipare, con tutte le componenti che la costituiscono – associazioni, aggregazioni, unità pastorali, consigli, vicariati, parrocchie – alla missione di Gesù. Egli è venuto per redimere, per divinizzare l’umanità, per realizzare una umanità in comunione con Dio Padre. In tale maniera, il Signore Gesù fa dell’umanità un popolo nuovo, un popolo di pellegrini che, mentre camminano verso la città celeste, trasfigurano la terra che attraversano. La presenza del Figlio di Dio in mezzo a noi ci costituisce fermento del Padre nella storia.
Dunque, la quaresima è un periodo di conversione anche per la nostra Diocesi che, per essere maggiormente a servizio dell’incarnazione di Gesù Cristo, deve impegnarsi ad essere sempre di più famiglia di persone sante ed immacolate, viventi nella carità. La nostra Diocesi è chiamata non a diminuire il proprio ardore nella missione, bensì a continuare la gloriosa tradizione di santità che l’ha caratterizzata nei secoli scorsi, ma anche la tradizione di liberazione e di umanizzazione del sociale.
La quaresima, vissuta con spirito di umiltà, dovrebbe, pertanto, rendere la nostra Diocesi una Chiesa più bella, gioiosa, audace, capace di incidere nel territorio, sulla cultura, sulle leggi. Per raggiungere simili traguardi occorre che, mediante conversione, ritorniamo a riscoprire la nostra appartenenza a Cristo, a creare nuova cultura partendo dal nostro vivere Cristo. Senza la chiara e lucida consapevolezza di essere di Cristo, di essere suoi, non possiamo trasfigurare l’umano, non possiamo generare nuovi umanesimi e aiutare la vita sociale a rimanere entro l’alveo di un’esistenza morale e civile.
Il segno austero delle ceneri che saranno poste sul nostro capo è monito severo che ci ricorda la nostra radicale fragilità. Siamo su questa terra come pellegrini, incamminati verso un altro mondo. Non abbiamo qui una dimora permanente. Per le stesse ragioni le ceneri sono invito a vivere con coerenza la nostra identità, la nostra missione: essere Chiesa del Verbo incarnato; prolungare la sua incarnazione affinché possa proseguire la sua opera di redenzione e di trasfigurazione delle persone e delle cose. Abbiamo bisogno dello Spirito di Gesù che ci accompagni nel deserto per vincere le tentazioni, il loro attacco ad una vita d’amore. Il combattimento spirituale, il digiuno, la preghiera siano un’ascesi che ci trasforma non in persone tristi, bensì gioiose nel dono pieno di noi stessi.
+ Mario Toso