[ott 01] Intervento – Assemblea iniziale Visita Unità pastorale Faenza centro

01-10-2024

Cari fratelli e sorelle,

iniziando questa Assemblea con le parole del Vangelo di Matteo, abbiamo ascoltato che «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Venendo fra di voi questa è la prima cosa che desidero comunicarvi: Dio non è un’idea astratta, un ideale da raggiungere, ma una Persona vivente, realmente presente nella nostra vita. È «in mezzo a noi» spiritualmente, ovvero realmente, nelle relazioni e nei «santi segni» che ci ha donato, come ad es. l’Eucaristia: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35).

La Visita pastorale che iniziamo questa sera non serve «per conteggiare le iniziative pastorali, bensì per rafforzare la loro qualità evangelizzatrice e, di conseguenza, per alimentare il fuoco d’amore per Gesù Cristo. Se il nostro cuore non arde per Lui rischiamo, come i discepoli di Emmaus, di averlo vicino, di camminare con Lui, ma di non riconoscerlo e di non amarlo. Rischiamo di non avere un cuore che vive per Cristo e che, quindi, non prova una passione d’amore nell’annuncio e nella testimonianza di Lui. Il vescovo viene, pertanto, a incontrare le comunità, le famiglie, gli organismi di partecipazione ecclesiale, le associazioni e le aggregazioni non tanto per puntare il dito sui limiti dell’azione pastorale o per trovare fragilità nelle relazioni comunitarie, bensì per incoraggiare, per suscitare nei discepoli la nostalgia della misericordia di Dio, dell’essere vera famiglia di Dio, popolo in cammino verso la Gerusalemme celeste. Nella sua visita il vescovo intende mettere in risalto, prima di tutto, la stupefacente bellezza del Vangelo, la magnificenza del dono che Egli ci fa della sua Vita divina. Sollecita all’incontro con la persona di Gesù, più e prima che con la sua dottrina.  In sostanza, vuole far risuonare la buona notizia del Vangelo e, con ciò stesso, confermare nella fede i passi – certo, a volte faticosi e pieni di dubbi – che stiamo intraprendendo per metterci sempre più alla sequela di Cristo, in particolare nell’anno Giubilare che ci accingiamo a vivere. Egli è il Maestro, l’unica e grande Guida della Chiesa: nell’annuncio, nella celebrazione e nella carità» (Vescovo Mario, Omelia 5 novembre 2023).

Situazione del centro città

Nelle relazioni che avete preparato emerge il tratto peculiare delle vostre comunità chiamate a misurarsi con un tessuto sociale molto frammentato e sempre più estraneo alla fede. Il centro rischia di essere un luogo di passaggio, più che una casa da abitare; una meta turistica, più che un luogo ove sperimentare la presenza del Signore. Le stesse bellissime chiese che ci hanno donato coloro che ci hanno preceduto nella fede sembrano essere un melanconico rimando ad un passato lontano, dove la fede aveva saputo dare forma allo spazio e alle relazioni. Oggi, invece, nel centro città riconosciamo, forse in maniera palpabile, che «il cristianesimo e la cultura da esso generata non costituiscono più un presupposto ovvio del vivere comune, della società, delle famiglie, delle associazioni ecclesiali e di ispirazione cristiana. Anzi, vengono spesso negati, emarginati, sminuiti. Molti cristiani non posseggono più l’alfabeto della fede che si nutre e si esprime mediante la liturgia» (Vescovo Mario, Intervento alla “Tre giorni del clero”, 10 settembre 2024).

In definitiva, emergono come tratti peculiari di questa zona la fluidità del tessuto sociale, una certa frammentazione sociale ed ecclesiale, un anonimato e un mutismo religioso, oltre che culturale.

La Chiesa, difronte a questa realtà quasi surreale, non può permettersi né di evitarla, né di perdersi in essa: i cristiani non sono del mondo ma nel mondo (cf Gv 17, Rm 12) e sono chiamati ad essere come lievito, quasi invisibile ma indispensabile per far fermentare la pasta, ovunque: nelle famiglie, nel mondo del lavoro, nella convivenza civile, nella educazione, nella amministrazione, nella cultura. Una situazione complessa come quella del centro città ci spinge a rivedere creativamente le azioni di evangelizzazione, di celebrazione, di carità, come in parte sta già avvenendo, sia pure timidamente, in tutto il territorio cittadino.

Una Chiesa madre

La Chiesa è madre, ovvero è capace di generare nuovi figli nella fede, nell’incontro con il Signore Gesù, in una cultura cristiana. È madre che sa integrare con tenerezza e decisione molteplici prospettive, componendo le divisioni e le fratture; è madre che sa farsi carico delle difficoltà in prima persona, ben sapendo cosa è il sacrificio; è madre che sa gioire e sa soffrire con i propri figli per la vita; è madre che sa lasciare partire rimanendo pronta a ricercare ad accogliere i propri figli quando ritornano.

Lo stile ecclesiale non può che essere sinodale: la comunità cristiana è chiamata ad entrare nei ritmi della vita reale di oggi, orientandola in Cristo, con una vita e un annuncio di testimonianza corali.

 

Penso alle occasioni di incontro e di testimonianza che le nostre comunità hanno in mezzo a questo flusso continuo di persone che transita per le nostre vie come nei porti, come in avamposti di bellezza, quali sono le nostre chiese: entrando in esse, riconoscendo la presenza del Signore Gesù, adorandolo e offrendo la propria vita. Esse non possono essere pensate solo come musei, ma come luoghi che attraverso la via della bellezza e del sacro, possono mettere in contatto le persone con la dimensione più spirituale della vita, quella trascendente. Esse devono essere aperte in modo da favorirne, garantendo anche la custodia tramite volontariato, l’apertura negli orari di maggior presenza e flusso. Questo comporta anche uscire dalla consuetudine data per intangibile ed irreversibile.

Rispetto alla corsa continua e frenetica dei lavoratori, la comunità dei figli di Dio può ritrovare il proprio centro nell’attesa e nella sosta che rigenera lo spirito e il corpo. Davanti ai tanti rumori di guerre e alle tante voci che riempiono la giornata, la comunità può riscoprire il silenzio della preghiera, il punto di sintesi dei molteplici aspetti della vita.

Una Chiesa che è casa

Una cosa è da evitare: il modello ecclesiale del supermercato. Mentre un tempo era la Cattedrale il luogo sociale per eccellenza, il luogo in cui emergeva l’unità della società, oggi assistiamo quasi ad un capovolgimento di paradigma. Il centro del vivere sociale, oggi, è il consumo, il possesso, il benessere individualistico. Oggi è emersa con prepotenza la nuova «Cattedrale sociale» che sono i Centri commerciali, luoghi che accolgono le persone offrendo loro una molteplicità di prodotti e servizi fruibili individualmente, con il consumo quasi infinito di qualsiasi bene. La parrocchia, indirettamente, corre il rischio di piegare la propria missione a questo paradigma: offrire un servizio alle persone per il loro benessere individuale.

La missione della Chiesa (l’annuncio del Vangelo, la celebrazione dei sacramenti, la vita nella carità), invece, è all’opposto: è un dono gratuito, una relazione che vuole comunicare l’unica cosa veramente essenziale, Gesù Cristo. Come dice il Concilio, «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (LG 9).

Il modello ecclesiale rimane, pertanto, la famiglia, quella cellula vitale che è vita comune, luogo di gratuità e riposo, di serietà e di aiuto vicendevole.

 

Una Chiesa che è Popolo di Dio

 

Siamo noi il Popolo di Dio, radunato dalla sua Parola di vita, dall’Eucaristia, dall’attenzione verso gli ultimi. Nessuno di noi può concepirsi come un individuo isolato. La parrocchia deve avere uno sguardo introverso: dobbiamo crescere nell’apertura, nel dialogo e nella cooperazione fra comunità e corresponsabilità diverse.

Le relazioni che mi avete mandato fanno emergere la difficoltà di sviluppare percorsi di cooperazione e di condivisione pastorale: abbiamo ancora la tentazione di avere uno sguardo ripiegato solo sulla nostra realtà, sul nostro particolare. Nel centro percepiamo che la diminuzione del clero e la denatalità ci costringe già fin d’ora ad immaginare percorsi nuovi di evangelizzazione, a favorire una maggiore corresponsabilità dei laici, tutte cose che oggi non sempre comprendiamo e non sempre stiamo scegliendo volontariamente.

La corresponsabilità dei laici, come ho avuto modo di ripetere molte volte nella Visita pastorale, non è solo una conseguenza al calo vocazionale, ma è una forma non più rinviabile di partecipazione ecclesiale, corrispondente alla vocazione battesimale di ciascuno di noi. L’annuncio, la celebrazione, la carità, non sono un possesso dei parroci, ma sono il fondamento di ogni discepolo del Signore.

Nel suo nome

Concludo, tornando all’inizio: il Signore è presente dove due o tre sono riuniti nel suo nome. Infatti, Egli ha «il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 9-11).

Non dobbiamo essere muti davanti al mondo: abbiamo il suo nome, abbiamo il Vangelo, abbiamo la testimonianza di una vita nuova con Lui, che vanno gridate dai tetti, (cf Mt 10,28) e nelle occasioni opportune e non opportune (cf 2 Tim 4,2).

Dobbiamo uscire dall’anonimato, dall’incapacità di parlare esplicitamente di Gesù e della sua Pasqua e dire quali sono le conseguenze pratiche del discepolato. Se crediamo che è Lui il centro della terra e del cielo, se che crediamo davvero che è il Signore, la nostra vita non può essere una vita anonima, che non testimonia la differenza provocata dall’incontro con Lui. «Non è la stessa cosa» se nella nostra vita abbiamo incontrato il Signore oppure no (Evangelii Gaudium 266).

Che il Signore guidi queste comunità alla continua scoperta del suo amore, perché ogni cristiano possa divenire più esplicitamente discepolo missionario del suo Vangelo.

                                                         + Mario Toso