Intervento di S.E. Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara

Per una pastorale integrata tra le diocesi

PER UNA PASTORALE INTEGRATA TRA LE DIOCESI

Intervento di S.E. Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara

Faenza, 12 settembre 2024

 

 

È un bel segno che alcune diocesi viciniori della Romagna abbiamo formulato il desiderio di confrontarsi su una pastorale integrata tra diocesi che non hanno grandi dimensioni e che vedono calare sempre di più le proprie risorse ministeriali e umane. Tale confronto esige di misurarsi sulla questione di fondo della forma ecclesiae immaginata per il futuro. Sono necessari tre passi: 1) la riflessione sull’immagine di Chiesa verso la quale camminare; 2) l’ingrandimento sul tema dei ministeri antichi e nuovi; 3) l’analisi dei dati da cui partire per immaginare forme di collaborazione integrata. A questi tre passi faccio precedere una breve premessa sulla questione più radicale: la condizione della fede oggi.

 

Premessa: La condizione della fede oggi

 

Il primo gesto della conversione spirituale e della riforma ecclesiale si àncora nella continua ricezione della Parola che suscita una risposta confidente. Non si può essere annunciatori della Parola se non essendo e rimanendo uditori della Parola. La Parola di Dio coinvolge l’annunciatore a testimoniare in tutta la propria esistenza il mistero di Dio. Il suo volto santo, che si fa prossimo nel Figlio Gesù, ospita l’umano ferito, povero, piagato, in cerca di senso, oppure frammentato e indifferente, timoroso e ansioso, a motivo della sua esperienza minacciosa e incombente del mondo attuale.

La Parola qui evocata non è solo annuncio verbale, ma è dono sacramentale: è il mistero santo di Dio che si rende presente nell’agire ecclesiale per vita del mondo (gestis verbisque). Se la Chiesa non ritorna al “roveto ardente” con cui Gesù, partendo da Mosè ed Elia, ci illustra il venire di Dio nel mistero della sua croce e nel pane spezzato; se i discepoli in fuga verso Emmaus non ritornano sempre da capo a Gerusalemme e non ritrovano gli undici riuniti che continuano a proclamare l’un l’altro il kerygma, col nome antico di Pietro («Veramente il Signore è risorto ed è apparso a Simone» Lc24,34), è impensabile riattivare qualsiasi slancio missionario.

L’ospitalità dell’umano, oggi per lo più indifferente e inappetente, è visto da più parti come l’antidoto alla debolezza dell’annuncio cristiano. Tuttavia, non ha senso solo come gesto di prossimità, se non riesce a introdurre nel mistero santo e incandescente del Dio di Gesù. Possiamo renderci ospitali dei nostri vicini e lontani facendoli prossimi, solo quando accogliamo la prossimità di Gesù che eleva l’umano nello spazio dell’intimità di Dio, anzi del Padre suo. Un cristianesimo ospitale senza contemplazione, Parola e Liturgia, è come un veicolo senza motore e senza energia cinetica. Qui sta il centro gravitazionale che attrae nel suo campo magnetico, ed è la principale scelta pastorale per la conversione dei credenti e la riforma della Chiesa. Come si farà ad indicare una via creativa per il Vangelo della prossimità di Gesù e dell’ospitalità dell’umano, che apra il varco verso il mistero santo di Dio? Questa è la domanda cruciale per il cristianesimo d’oggi!

Lo stile di un cristianesimo che ospita la lingua, il costume e la vita degli altri uomini non può camminare sulla loro via senza mettere in gioco la sua singolare esperienza di Dio, come si rivela in Gesù, nella sua Parola e nel suo Sacramento. Ospitalità dell’umano e accoglienza del divino di Gesù non sono forse due grandezze direttamente proporzionali? Si può così formulare la legge essenziale per l’annuncio di oggi: “tanta più ospitalità umana quanto più si dimora in Dio”. Un’evangelizza­zione culturalmente consapevole e spiritualmente trasformante non deve “abitare”, senza mai abbandonarlo, presso il roveto ardente della Parola, del Sacramento e dell’A­gàpe?

 

  1. Forma ecclesiae: l’azione pastorale in prospettiva missionaria

Si apre davanti a noi un periodo travagliato in cui si deve “immaginare la Chiesa di domani”: è questa forse la sfida più urgente. “Immaginare la Chiesa” è per eccellenza un atto del sapere pratico, in cui mistero e soggetto storico, comunione e popolo di Dio, vanno pensati e praticati insieme. La sinodalità non può che essere la rappresentazione concreta (partecipazione) della coscienza fraterna della Chiesa nel tempo (comunione), perché sia segno e sacramento dell’unità tra gli uomini (missione). Tutte le analisi sociologiche descrivono la fine del regime di cristianità, parlano dei molti tentativi di riorganizzazione della “forma di Chiesa” per la sua presenza nel territorio, da leggere non più solo in senso geografico, ma in un’ottica antropologica, enfatizzano il superamento del “modello tridentino”, registrano il sorgere di nuove forme di comunità (aggregazioni, associazioni, movimenti), oggi in forte crisi per il venir meno e talvolta il tradimento dei padri, osservano l’esplosione di pratiche di spiritualità con contaminazioni provenienti da altre esperienze religiose e meditative. Tutti questi e altri fenomeni devono trattenerci da un’immaginazione ideologica che pensi al cambiamento dell’immagine di Chiesa come rottura e rifondazione da zero. Le questioni emergenti per questa “reinvenzione” della forma ecclesiae sono due: come si vive l’esperienza di Chiesa e come vi si entra. In altre parole si tratta di due temi: il riposizionamento della forma-comunità nell’esperienza umana dei cristiani; la pratica dell’iniziazione cristiana come trasmissione-ricezione della fede nel quadro della generazione alla vita.

Il ripensamento delle comunità territoriali è già ora e sarà uno dei compiti decisivi del futuro. Si tratta di immaginare il rinnovamento della Chiesa e della “forma delle comunità cristiane” come una “trasformazione”. Oggi il discernimento deve distinguere nel soggetto-Chiesa tra mistero e soggetto storico, tra comunione e forma di comunità. La parcellizzazione del territorio che aveva guidato il modello tridentino della “parrocchia”, con l’intento di una presenza capillare alla vita della gente, era debitrice di una pratica agricola e stanziale della vita umana. La rivoluzione industriale ha messo in forte discussione questo modello e ha introdotto un dinamismo di individualizzazione e mobilità, separando talvolta in modo sofferto tempo del lavoro e luogo della dimora. Il modello parrocchia, fortemente delimitato dai confini e incentrato sul ministero del prete, è andato in sofferenza dall’interno (diminuzione e invecchiamento dei sacerdoti, sostanziale marginalità operativa dei laici e delle donne) e dall’esterno (difficoltà a realizzare figure del legame comunitario che altalena tra parrocchia di situazione e comunità di elezione). Tuttavia, la forma di chiesa “parrocchia”, così come la famiglia, proprio perché è soggetta al cambiamento sociale, muta la sua forma di presenza non per rottura, ma attraverso un processo di trasformazione e di riposizionamento, capace di attivare legami non più centrati sul confine territoriale, ma su vincoli significativi e su appartenenze creative e fidelizzanti. Unità pastorali, Comunità pastorali, Collaborazioni pastorali sono il nome delle azioni ecclesiali che domandano un coraggioso ripensamento per intravedere una direzione comune e differenziata che reinventi la presenza della Chiesa alla vita della gente.

Il tema dell’iniziazione cristiana è uno degli snodi cruciali del ripensamento della forma ecclesiae. Con divertita ironia, un vescovo liturgista ebbe a dire che le due questioni essenziali dell’esperienza di chiesa sono: come si entra nella Chiesa e come vi si rimane! In altre parole, il percorso iniziatico dei ragazzi e l’esperienza degli adulti nella Chiesa. Per quanto riguarda il primo aspetto, la sperimentazione dei cammini di iniziazione cristiana negli ultimi decenni è stata oggetto di ampia creatività: forse è mancato un monitoraggio assiduo e una valutazione critica dei risultati, che potessero fornire una consapevolezza di apprendimento dall’esperienza. Le prassi messe in atto sono state molteplici e diversificate e hanno prodotto talvolta frammentazione o disorientamento, soprattutto nel confronto tra Chiese locali viciniori con scelte talora alternative. Anche dal punto di vista teorico si sono affrontate due linee pastorali: l’una che enfatizzava l’aspetto pedagogico di iniziazione ai sacramenti; l’altra che privilegiava l’aspetto liturgico di iniziazione attraverso i sacramenti. Meno attenzione forse si è avuta al fatto che si dovesse “iniziare” alla vita cristiana nella Chiesa. Il risultato è sembrato deludente, espresso nella lamentela diffusa che il percorso di accesso alla vita cristiana non “inizia alla fede”, ma anzi sembra “concludersi” con la ricezione dei sacramenti. L’evidenza sembra aggravata anche dal fatto che l’ordine con cui vengono amministrati i sacramenti di iniziazione termina con la Cresima, che è ricevuta una volta per tutte, e non con l’Eucaristia che è il sacramento che scandisce la vita del cristiano e che fa la Chiesa, segnando il ritmo della vita umana.

Forse oggi però la diagnosi più amara, che registra un percorso di iniziazione che non inizia, andrebbe messa in relazione con un dato più radicale. La pista di ricerca suggerisco è la seguente: nelle tre stagioni della catechesi d’iniziazione (infanzia, fanciullezza, adolescenza-giovinezza) la trasmissione-ricezione della fede non può non accadere che in profonda simbiosi e mediante un graduale processo di personalizzazione della trasmissione della vita. Oggi non siamo solo in grave difficoltà a consegna­re la fede, ma siamo tutti in affanno a trasmettere le forme della vita buona. È andata in crisi la “catena della trasmissione”. La diagnosi più certa e la sfida più vera mi sembra essere una e una sola: la famiglia, le comunità, la scuola, nel quadro dell’odierna società dell’immediatezza, sono in grado di trasmettere le forme pratiche della vita buona e lasciano lo spazio e il tempo per ereditarle e personalizzarle? Non è possibile prospettare l’iniziazione alla fede come coronamento della trasmissione della vita? Questa mi sembra la questione più radicale, da cui discendono tutte le altre.

 

  1. Le figure ecclesiali: antichi e nuovi ministeri           

Il tema dei ministeri sta in cima all’agenda ecclesiale ed è strategico per ripensare la forma ecclesiae. Il volto missionario delle parrocchie cambierà in modo significativo solo quando non sarà più incentrato solo sul parroco o sui presbiteri, ma il panorama si animerà di figure molteplici com’era nella Chiesa del primo millennio. La riforma gregoriana (1075) ha fatto di necessità virtù: all’inizio del secondo millennio, la Chiesa, per salvare la libertas ecclesiae dall’invasione del piede politico, difese la sua missione asserragliandosi nel bastione della potestas del clero. La formu­la­zione del Decretum Gratiani (sec. XII) del duo sunt genera christianorum ne ha poi fissato il quadro di riferimento. La missione della chiesa è riservata ai chierici (e ai religiosi) ad intra ed è lasciata per le cose temporali ai laici ad extra. Il carattere rassicurante dello schema si è consolidato nella modernità con la separazione di ragione e fede e di natura e soprannatura, aggravato dalla dilatazione della laicità nello spazio pubblico. Così la Chiesa ha perso gradualmente nel suo orizzonte la ricchezza delle figure battesimali ed ecclesiali. La stessa riscoperta conciliare del ruolo dei laici ha corso il rischio di essere dirottata quasi esclusivamente nel mondo, dove i laici trattano «le cose temporali ordinandole secondo Dio» (Lumen Gentium, 31).

Anche il Sinodo (italiano e universale) non può non riportare al centro il tema dei ministeri, togliendolo da ogni parzialità. Nella scia del Concilio Vaticano II, già Paolo VI aveva riveduto la prassi della Chiesa latina relativa agli ordini sacri come era stata formulata dal concilio di Trento. Il Vaticano II aveva disposto che «il ministero divinamente istituito venisse esercitato in ordini diversi da coloro che già in antico venivano chiamati vescovi, presbiteri e diaconi» (Lumen Gentium, 28). In linea con quella decisione, il Motu ProprioMinisteria quaedam” (15 agosto 1972) abolì gli “ordini minori” dell’Ostiario, dell’Esorcista, del Lettore e dell’Accolito, e l’ordine maggiore del Suddiacono, che erano conferiti in vista dell’ordinazione sacerdotale, configurando quelli del Lettore e dell’Accolito come “ministeri istituiti”, ma non considerandoli più come riservati ai candidati al sacramento dell’Ordine.

Papa Francesco, a distanza di cinquant’anni, ha promulgato il Motu ProprioSpiritus Domini” (10 gennaio 2021), con il quale ha superato il vincolo di Ministeria quaedam che «riservava il Lettorato e l’Accolitato ai soli uomini» e ha disposto l’inclusione delle donne nei ministeri battesimali con la modifica del can. 230 § 2Il Papa ha promulgato nello stesso anno il Motu Proprio “Antiquum Ministerium” (10 maggio 2021) sull’istituzione del ministero del Catechista per la Chiesa universale. I due Motu Proprio consentono di far maturare una visione più articolata della ministerialità, rendendo sempre più evidente l’indispensabile apporto della donna, su cui Papa Francesco aveva già scritto, invitando ad «allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa» (Evangelii Gaudium, 103).

È decisiva però la rivendicazione della radice battesimale dei ministeri istituiti e dei servizi di fatto svolti nella Chiesa e nel mondo. Così, da un lato, si eviterà la retorica di “una Chiesa tutta ministeriale”, che legge i nuovi e antichi ministeri ancora sulla filigrana dei poteri del ministero ordinato, e, dall’altro, ciò consentirà di animare il panorama ecclesiale di forme plurali di presenza alla vita della Chiesa e per la missione nel mondo. Occorre inquadrare la questione dei ministeri istituiti in un orizzonte più vasto, per correggerne la prevedibile clericalizzazione: la vita cristiana riveste a partire dalla fede e dall’iniziazione battesimale un’indubitabile dimensione ecclesiale. Anche se qualcuno non assumesse nessun servizio o incarico ecclesiale, ma esercitasse semplicemente il suo essere cristiano nella famiglia, nella professione o nel mondo, non per questo sarebbe un cristiano meno ecclesiale. Confondere il cristiano “ecclesiale” con il cristiano “impegnato”, per giunta nella comunità, introduce un corto circuito, perché chi non è impegnato direttamente nella chiesa percepirà un’appartenenza debole e, invece, solo chi ha un servizio riconosciuto si sentirà un membro a pieno titolo.

L’ecclesialità del cristiano è virtualmente presente in ogni battezzato e non ha bisogno di nessun riconoscimento o garanzia dall’alto, perché sgorga semplicemente dalla fede e dal battesimo. Dall’iniziazione cristiana deriva anche il compito missionario di ogni credente, che può e deve esercitare secondo le sue possibilità nello spazio ecclesiale e/o nel campo del mondo. Se poi il credente esercita servizi, ministeri o compiti “di fatto” nella Chiesa o nel mondo, la storia insegna che essi possono essere praticati anche per tutta la vita senza aver bisogno del timbro di riconoscimento esplicito del ministero ordinato (parroco o vescovo).

È solo sul terreno fecondo di tale nube di testimoni, irrorato dalla gratuità del loro impegno ecclesiale o sociale, che trovano la giusta collocazione i “ministeri istituiti”, accanto ai ministeri “liberi” o “di fatto”. E se la Chiesa parla di ministeri “istituiti” per servizi che essa oggi ritiene storicamente necessari (lettore, accolito, catechista), non sarà urgente immaginare altri ministeri (di guida delle piccole comunità, della consolazione, della carità, della missione) e altri servizi, che oggi animano la vasta galassia del volontariato, da vivere come cristiani nel mondo?

La formazione della coscienza cristiana ed ecclesiale degli adulti e l’animazione di compiti, servizi e ministeri sono il terreno nutriente che toglierà ogni velleità clericale ai “ministeri istituiti”, ma soprattutto restituirà l’immagine di una “chiesa tutta battesimale”. Dove, tra l’altro, anche la presenza delle donne non avverrà per concessione, ma semplicemente – e dite se è poco – perché radicata nell’essere cristiane! La fase sapienziale propone la sfida per passare da una comunità secondo il modello “uno-tutti” al modello “uno-alcuni-tutti” o, ancora meglio, “tutti-alcuni-uno”. Abbiamo bisogno di ritornare alla Chiesa popolata da molti volti e da variegate presenze! La conversione spirituale e la riforma pastorale rivela proprio qui il suo momento più sintomatico.

 

  1. Le Chiese locali: l’azione pastorale integrata “tra” le diocesi

L’intuizione di questo incontro-confronto è stata sollecitata dai vescovi delle diocesi viciniori della Romagna che hanno una ragione di prossimità storica, geografica, culturale e pastorale. Per questo mi sono permesso di chiedere una documentazione circa lo stato di fatto geografico e numerico delle diocesi vicine, con i dati delle risorse pastorali e ministeriali, nel quadro delle altre diocesi della Romagna. Bisognerebbe aggiungere anche considerazioni di carattere culturale e storico. Ne ho ricavato un piccolo Dossier che ho consegnato alla responsabilità pastorale dei Vescovi in questione. Per aprire la riflessione mi permetto di riprendere solo alcune osservazioni che offro al vostro discernimento e confronto.

3.1 Uno sguardo geografico. Il punto di partenza è l’iscrizione delle Diocesi nel quadro delle Province. La diocesi di Imola (compresa la sede) è in provincia di Bologna; la diocesi di Faenza è in provincia di Ravenna; le diocesi di Forlì e Cesena fanno già una provincia (con due porzioni presenti rispettivamente in diocesi di Faenza e di Rimini); la diocesi di Rimini è piccola geograficamente, ma è la più numerosa per popolazione dopo Bologna; la diocesi di San Marino e Montefeltro è un unicum perché contiene uno stato autonomo. La diocesi di Ravenna insiste solo sul litorale costiero della sua provincia e, attraverso uno stretto corridoio, si distende su una parte della Diocesi di Ferrara; infine, la diocesi di Ferrara insite per intero sulla sua Provincia, esclusa la parte (consistente) della Diocesi di Ravenna e tre comuni appartenenti alla Diocesi di Bologna. Ecco la cartina che rende visivamente la rappresentazione delle Diocesi, Province e Comuni.

 

3.2 La tabella delle risorse. Le Diocesi che stanno tra i 100.000 e i 200.000 abitanti sono quattro: Forlì (187 mila),Cesena (172 mila), Imola (143 mila), Faenza (140 mila). Le Diocesi che stanno tra i 200.000 e i 350.000 abitanti sono tre: Ferrara, Ravenna e Rimini: Ferrara 270.352 (capoluogo di provincia); Ravenna 216.500 (capoluogo di provincia); Rimini 358.500 (capoluogo di provincia).  Singolare è il caso della Diocesi di San Marino-Montefeltro, che fu giù soppressa per circa trent’anni e unificata con Rimini, ma poi si dovette tornare indietro per la specificità di contenere uno Stato autonomo. È facile osservare il rapporto tra numero parrocchie, preti e religiosi (numeri sono al lordo).

 

DIOCESI Km2 Abitanti Parrocchie Preti Religiosi
Bologna 3.549 1.005.536 410 314 197
Ferrara-Comacchio 3.138 270.352 174 125 17
Ravenna-Cervia 1.185 216.500 88 58 21
Imola 740 143.170 108 82 16
Faenza-Modigliana 1.044 139.800 86 58 9
Forlì-Bertinoro 1.182 187.800 128 87 15
Cesena-Sarsina 1.530 172.618 87 81 55
Rimini 781 358.500 115 136 35
San Marino-Montefeltro 683 66.441 81 46 19
Tot. 13.832 2.560.717 1.277 987 384

Fonte: Annuario Pontificio 2023

 

3.3 Le prospettive future. Le considerazioni di carattere civile, geografico e antropologico-culturale sono propedeutiche alle questioni di carattere ecclesiologico ed evangelizzatore. Suggerisco tre spunti per un confronto su quali passi di pastorale integrata occorre fare insieme:

 

* Il criterio della prossimità è sovente messo in primo piano (riferito prevalentemente al vescovo, che può esercitare una migliore paternità col clero e una prossimità alle comunità), ma va tenuto in equilibrio con il criterio di sostenibilità dell’azione pastorale e missionaria della Chiesa. Le azioni ecclesiali di più ampio respiro (Seminario, Scuola di Teologia e ISSR, Iniziazione cristiana, Ministeri laicali, Missione, Beni culturali, Istituto Sostentamento Clero, rapporto con la comunità civile, con le Fondazioni, con l’Università) di norma chiedono un coordinamento tra più diocesi, soprattutto tra le più piccole. Di qui la prima questione: si può immaginare l’esperimento di un forte “coordinamento” tra le diocesi viciniori su tematiche pastorali ad ampio investimento missionario? Forse è possibile prevedere un tempo di coordinamento (integrazione degli uffici di curia, unificazione di formazione permanente, seminari interdiocesani, omogeneità dei criteri per l’iniziazione cristiana, per le unità pastorali, per i ministeri, ecc.)?

 

* Per il confronto tra le diocesi bisogna tener conto delle evidenti ricaduti pastorali sulle comunità diocesane e parrocchiali e sulle figure ministeriali. Per preparare il confronto, senza suscitare inutili apprensioni, si potrà procedere liberamente tendo presente queste tre condizioni:

– Nessun vescovo può temere di procedere con necessaria libertà e la formulazione di proposte a partire dai dati riportati, perché è previsto tutto il tempo necessario.

– Le soluzioni possibili oscillano tra un tempo da dedicare ad un coordinamento coraggioso tra le diocesi viciniori (criterio ecclesiologico e missionario) e un processo o di unità in persona episcopi oppure di unificazione per accorpamento.

– Prima di ogni determinazione bisogna ponderare bene chi e come coinvolgere nel processo: consigli presbiterali, pastorali diocesani, presbiteri e diaconi, comunità parrocchiali più interessate alla revisione dei confini, ecc.

 

* Il coordinamento potrebbe essere realizzato in più tappe. Si può prevedere in un primo tempo una graduale, ma decisa, convergenza sulle scelte pastorali di fondo (iniziazione, preparazione al matrimonio cristiano, respon­sabilità comune nell’evangelizzazione, omogeneità dei criteri di accesso ai sacramenti, presa in carico di iniziative mirate di evangelizzazione, progetti di presenza culturale, confronto sull’impegno missionario, gestione del patrimonio culturale, ecc.) per passare in un secondo tempo a primi tentativi di unificazione che nel frattempo possono maturare insieme. Ciò esige come condizione imprescindibile una pratica della collegialità episcopale e della sinodalità ecclesiale, se non si vuole solo stare in superficie e non incidere nell’attuale trasformazione strutturale della Chiesa nel mondo odierno. Per pensare in termini concreti basti pensare alla fatica immane, ma anche alla necessità storica e opportunità teologica di pensare il rapporto tra Chiesa e territorio, come da tempo sta avvenendo con vicende alterne nel rapporto tra le parrocchie, sotto il capitolo Unità e/o Comunità pastorali. Infine, in un terzo tempo si potrà procedere ad eventuali accorpamenti ed unificazioni, in una prospettiva temporale distesa, che preveda il maggior coinvolgimento possibile di parrocchie, preti e laici, insieme al potenziamento di figure ministeriali.