VIVERE CON SENSO
Carpegna, 12 agosto 2024.
La parola di Dio ci presenta la vocazione di Ezechiele. Egli rimane affascinato dalla gloria e dallo splendore del Signore. Gesù dice ai suoi discepoli che la gloria di Dio passa per il tormento della croce: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risusciterà» (Mt 17, 22-23). L’amore per il Signore implica l’accettazione di una vita che risplende sulla croce come dono totale, dono allo stato puro. Il discepolo di Cristo è chiamato a comprendere che innamorarsi di Lui importa accogliere una vita che si svuota e si fa dono sino a salire sulla croce con Gesù Cristo. Ciò può rattristare il discepolo. In realtà, essere crocifissi con Gesù nel dono totale della propria vita è partecipare alla sua gloria e al suo trionfo sulla morte e sul peccato, è confessare un’esistenza dedicata all’amore totale per Dio. Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, ebrea convertitasi al cristianesimo, filosofa, allieva e discepola di Edmund Husserl, divenuta carmelitana scalza, morta nelle camere a gas con sua sorella ad Auschwitz, dichiarata compatrona d’Europa, riteneva che la professione del cristiano fosse l’amore. Il credente, che vive Cristo, è chiamato a coltivare la scienza della croce. Non a caso, ispirandosi a san Giovanni della Croce, scrisse un saggio sulla «Scienza della croce».
Ciò premesso è più facile approfondire il tema su cui vi siete fermati a riflettere in questi giorni: vivere con senso. Vi sono fondamentalmente due vie per scoprire chi siamo e quale è la nostra vocazione fondamentale.
La prima via per riconoscere chi siamo e che siamo chiamati a vivere con senso è quella che possiamo sperimentare quando nelle nostre famiglie nasce una nuova vita, quando viene alla luce una bambina o un bambino. Il bambino o la bambina entrano a far parte di un «noi» di persone: mamma, babbo. Questi sono il primo «noi», quello più prossimo, il noi dei genitori. Ma c’è, poi, un secondo «noi», quello dei fratellini, delle sorelline: un noi di persone, completato da quello formato dai nonni, dalle zie e dagli zii, se babbo e mamma hanno sorelle e fratelli. Non è finita. Ci sono, inoltre, altri «noi di persone», altre comunità, che accolgono i piccoli che crescono: l’asilo nido, la scuola materna, la parrocchia, il proprio paese o la propria città, la propria nazione, la famiglia umana.
Ebbene, venendo a noi, scopriamo il senso della nostra vita, ossia chi siamo e le ragioni per cui siamo chiamati a vivere con gioia ed entusiasmo, stando dentro dei «noi di persone». Fermiamoci ancora a riflettere sul primo noi, formato dai genitori. Impariamo che siamo un «io», una persona, un soggetto in relazione, capace di comunicare e di amare, interagendo con i nostri genitori. La bambina e il bambino apprendono, poco alla volta, chi sono e che la loro vita ha un senso attraverso l’esperienza dell’amore di mamma e papà, attraverso la loro accoglienza gioiosa, attraverso le loro cure amorevoli, le loro coccole, i baci, il loro costante atteggiamento di empatia, la comunicazione gestuale e verbale del loro corpo e della loro voce, il contatto corporeo, la dedizione attenta.
In breve, una prima via per conoscerci, nella nostra vocazione di esseri umani, di persone amate, chiamate a vivere con amore, per amore, è l’esperienza dell’amore quotidiano dei genitori, è il crescere entro le relazioni di dipendenza esistenziale e affettiva – quando veniamo al mondo siamo prole inetta, bisognosa di tutto per vivere -, rispetto ai genitori che abbiamo. Non possiamo dimenticare che l’esperienza di vita con i genitori non sempre è ottimale. Psicologi e pedagogisti sono attenti nel considerare anche questa eventualità, nei suoi molteplici risvolti, anche negativi. Questa triste possibilità, come anche l’eventuale esperienza, più avanti, del bullismo sono vie che non consentono di avere un’esperienza positiva di sé stessi, ossia un’esperienza che consente di percepirci come un io, una persona amata, stimata, aiutata a fiorire in umanità, in libertà e responsabilità, in amore. I bambini, le persone, lo sappiamo, non fioriscono a sberle, ma vivendo in una comunità accogliente.
Una seconda via per conoscere chi siamo e cosa siamo chiamati a vivere è quella rappresentata dall’incontro con l’amore di Gesù Cristo, sia dentro il «noi» della famiglia cristiana sia dentro il «grande noi» che è la comunità parrocchiale, la Chiesa, popolo di Dio, comunione di tanti «noi» – famiglie, comunità – con Gesù Cristo e tra credenti. Si tratta di una via, di un grembo di vita in cui apprendiamo la nostra identità e la nostra vocazione cristiane.
Nell’esperienza della Chiesa, in cui incontriamo l’amore di Gesù Cristo e della Trinità, troviamo una via di conoscenza del senso della nostra vita più perfetta, più completa rispetto a quella semplicemente umana. È la via dell’esperienza unica dell’amore di Cristo, della comunità-comunione trinitarie.
L’amore di Dio, comunità del «noi uno e trino», è l’amore più grande che possiamo ricevere e sperimentare. È un amore pieno di tenerezza, di verità. È la via della Caritas in Veritate. Noi non ci conosciamo del tutto anche se abbiamo 80 anni, un’esperienza lunga di noi stessi. Solo Dio, che è più intimo a noi di quanto non lo siamo noi stessi per noi, ci conosce profondamente, esaustivamente. È attraverso l’esperienza meravigliosa, ineffabile, dell’incontro con Gesù Cristo, del suo amore per noi, che possiamo comprendere chi realmente siamo, quanto valiamo per Dio, quale è la nostra altissima dignità di figli del Padre, figli nel Figlio.
È grazie all’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito santo – amore ricevuto, accolto, sperimentato e celebrato -, che capiamo cos’è il nostro essere, la libertà dei figli di Dio, la nostra chiamata all’amore per il Padre e il prossimo, all’essere dono e servizio ai fratelli, specie più poveri. Grazie all’amore trinitario, scopriamo di essere persone, soggetti strutturati a tu, chiamati a vivere in comunione con gli altri, con Dio, nel Figlio, Verbo incarnato. Gesù, in particolare, nel suo Vangelo ci insegna che l’uomo è per l’altro non un lupo (homo homini lupus, avrebbero invece insegnato Plauto, Erasmo e più tardi il filosofo Tommaso Hobbes) bensì un figlio di Dio (homo homini deus: Terenzio, Spinoza). Per questo ci sollecita ad essere samaritani, ad amarci gli uni e gli altri come Lui ci ama, a dare da mangiare alle folle affamate, a dare Lui, pane vivo disceso dal cielo, che ci procura una vita eterna.
San Paolo sprona i credenti – ecco la loro vocazione più che umana – a non rattristare lo Spirito d’amore che abita in loro e con il quale sono stati segnati per il giorno della redenzione: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo». Con espressioni che indicano movimento, impegno continuo, san Paolo così conclude il suo incoraggiamento per i cristiani: «[…] camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo vi ha amati e ha dato sé stesso […] offrendosi a Dio in sacrificio […]» (Ef 4, 30- 5,3).
Ricordiamoci, dunque, delle due vie che ci consentono di conoscere chi siamo e qual è la nostra vocazione. Ringraziamo il Signore per le nostre famiglie e le nostre comunità cristiane. Pensando a quanto sono importanti per la nostra crescita e la nostra gioia facciamo il proposito di coltivarle e di pensarle come luoghi di educazione imprescindibili per tutti i giovani.
+ Mario Toso