Così inizia il messaggio di papa Francesco per la XXXII Giornata Mondiale del Malato. Le sue parole portano alla luce tante domande, che si concentrano in un grande perché: perché, se siamo stati creati per la comunione, non siamo capaci di realizzare quello che è il nostro bene, perché la solitudine fa sempre più parte della vita, perché c’è un aumento costante di persone sole? Papa Francesco lo spiega: «Ci fa bene riascoltare quella parola biblica: non è bene che l’uomo sia solo! Dio la pronuncia agli inizi della creazione e così ci svela il senso profondo del suo progetto per l’umanità ma, al tempo stesso, la ferita mortale del peccato, che si introduce generando sospetti, fratture, divisioni e, perciò, isolamento. Esso colpisce la persona in tutte le sue relazioni: con Dio, con sé stessa, con l’altro, col creato. Tale isolamento ci fa perdere il significato dell’esistenza, ci toglie la gioia dell’amore e ci fa sperimentare un oppressivo senso di solitudine in tutti i passaggi cruciali della vita». «Il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono».
La solitudine degli anziani è da tempo studiata, i numeri sono noti: le persone oltre i 75 anni di età che vivono sole sono, nel nostro paese, circa 2,5 milioni. Vivere soli non significa sempre essere o sentirsi soli. Tanti vivono soli, ma hanno familiari, amici, vicini, hanno una vita piena di relazioni. Man mano però che aumenta la fragilità, che si limitano i movimenti, la situazione si complica. Sono noti anche i danni psicologici e fisici che la solitudine porta: l’esperienza del Covid li ha evidenziati, non solo negli anziani soli a casa, ma anche in tutti coloro che, ricoverati in ospedale o ospiti di case di riposo, non hanno potuto avere accanto a sè persone care per lungo tempo. La solitudine non riguarda, infatti, solo che vive a casa, ma anche tanti anziani che nelle strutture, pur non essendo mai soli, soffrono la mancanza di parenti, amici. “Fratelli e sorelle, la prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza. Per questo, prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari –, col creato, con sé stesso. È possibile? Si, è possibile e noi tutti siamo chiamati a impegnarci perché ciò accada. Guardiamo all’icona del Buon Samaritano, alla sua capacità di rallentare il passo e di farsi prossimo, alla tenerezza con cui lenisce le ferite del fratello che soffre.” Mi colpisce il messaggio di quest’anno del Papa, così semplice, così «scontato». Non dice niente di nuovo, niente che non sappiamo, che non abbiamo ascoltato o detto tante volte, niente che possa suscitare contrapposizioni tra favorevoli e contrari, tra tradizionalisti e progressisti, niente che lo abbia fatto nominare nei giornali. D’altronde i malati, gli anziani fanno notizia solo se vogliono morire prima del tempo, non se desiderano vivere con accanto qualcuno che li accompagni, li ascolti, li consoli. Ma, quanto la Giornata del Malato fa notizia nelle nostre parrocchie, quanto è sentita, pensata? In quanti Consigli pastorali è messa all’ordine del giorno? In quanti Consigli pastorali sono qualche volta all’ordine del giorno i malati, gli anziani soli? Da vari anni noi, impegnati nella pastorale della salute diocesana, cerchiamo con la Caritas di affrontare il tema della solitudine degli anziani, con progetti che vorrebbero, innanzitutto, conoscere il territorio, mappare le situazioni di maggior fragilità, per suscitare nelle comunità un’attenzione diffusa, affinchè nessuno sia solo. Progetti difficili da condividere, da portare avanti, perché sopraggiungono sempre temi più urgenti. Eppure parlare di malattia, di fragilità, di solitudine vuol dire parlare anche di noi, perchè tutti incontriamo la malattia di persone care e nostra, anche se non vorremmo; tutti speriamo di arrivare alla vecchiaia (anche se la parola non si può più pronunciare) e non vorremmo viverla soli. “A voi, che state vivendo la malattia, passeggera o cronica, vorrei dire: non abbiate vergogna del vostro desiderio di vicinanza e di tenerezza! Non nascondetelo e non pensate mai di essere un peso per gli altri”. Grazie, papa Francesco, perchè non ci chiedi di vivere in maniera eroica la malattia, di farci “bastare” la vicinanza di Dio, ma ci autorizzi a manifestare il nostro bisogno di vicinanza e tenerezza, a chiedere un po’ di carezze e di abbracci, a sperare di non vivere l’ultimo pezzo della vita in solitudine e ci inviti come singoli e come comunità ad essere vicini a chi è solo, perchè “Gli ammalati, i fragili, i poveri sono nel cuore della Chiesa e devono essere anche al centro delle nostre attenzioni umane e premure pastorali.”Domenica 11 febbraio in ospedale a Faenza la messa per la Giornata del malato
«Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Fin dal principio, Dio, che è amore, ha creato l’essere umano per la comunione, inscrivendo nel suo essere la dimensione delle relazioni. Così, la nostra vita, plasmata a immagine della Trinità, è chiamata a realizzare pienamente sé stessa nel dinamismo delle relazioni, dell’amicizia e dell’amore vicendevole. Siamo creati per stare insieme, non da soli. E proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria.