Crespino, 23 luglio 2023.
Autorità civili e militari, caro don Bruno, cari familiari dei caduti, nella santa Messa che ci accingiamo a celebrare ricordiamo tutti coloro che sono stati uccisi nell’eccidio di Crespino del Lamone e Fantino nel 79° anniversario. Inoltre, ricordiamo coloro che sono morti a causa delle due alluvioni che hanno colpito la Diocesi di Faenza-Modigliana e la Romagna.
Alla luce della Parola di Dio, in particolare del Vangelo (cf Mt 13, 34-43), ove Gesù ci propone la parabola del buon seme e della zizzania, riflettiamo sul nostro impegno a realizzare il Regno di Dio, la pace in questo mondo.
La parabola del grano e della zizzania ci aiuta a comprendere come nelle situazioni complicate di conflitto, qual è anche il caso della guerra tra Russia e Ucraina, la via di uscita, l’«uscita di sicurezza» direbbe Ignazio Silone, non può essere quella – come pensano e dicono spesso gli stessi belligeranti –, della sconfitta o dell’eliminazione del nemico, mediante una guerra fratricida, devastatrice, annientatrice. Il risultato sarebbe una pace ove sulla faccia della terra esisterebbe solo il probabile vincitore ma non l’avversario. Dio con la parabola del buon seme e della zizzania ci insegna, anche con riferimento alla tragica guerra in atto, a non essere «impazienti», a non usare la violenza che annienta l’avversario, come via sbrigativa più efficace per ottenere la pace. Ci insegna, invece, ad imboccare la strada della pazienza, delle trattative, del dialogo, ove sia data la possibilità alla stessa zizzania di diventare grano buono, come nel caso del buon ladrone. Una volta iniziata una guerra, ci può essere la tentazione di chiudere la partita mediante l’impiego di armi più micidiali, per giungere a prevalere sul nemico. Resta il fatto che, accrescendo la potenza del proprio esercito e delle armi offensive, si continua a seminare morte, a lasciare cumuli di macerie, a distruggere strade e ponti. Detto diversamente, si persegue la pace unicamente mediante la guerra, mediante l’eliminazione dell’avversario. La guerra diventa un’inutile strage, un mattatoio ove periscono aggrediti ed aggressori. Il Vangelo di oggi e la riflessione su di esso sembra ci incammini verso un’altra strada, che potrebbe essere espressa così: «se vuoi la pace prepara istituzioni di pace». Oppure, in altra maniera ancora: Si vis pacem para civitatem (non para bellum, come dicevano gli antichi, o come sembra abbia detto qualcuno dei nostri politici). Se vuoi la pace prepara una cultura di pace. La guerra va sconfitta predisponendo, a livello spirituale, culturale, sociale, economico, politico ed istituzionale, tutto ciò che la previene o la rimuove. Vie privilegiate sono quelle dell’educazione alla non violenza attiva e creatrice, della preparazione di nuove classi politiche – il card. Zuppi recentemente a Camaldoli, nella sua prolusione del 21 luglio 2023 al Convegno su «Il Codice di Camaldoli», ha ricordato che uno dei problemi di oggi è il divorzio tra cultura e politica, cosa che rende quest’ultima epidermica, a volte ignorante, con poche visioni, non affidabile – non solo a livello nazionale ma anche a livello internazionale; la revisione trasformazionale dell’assetto delle istituzioni politico-giuridiche internazionali obsolete – si pensi anche solo all’ONU –, la preghiera, l’unione a Cristo Signore e al suo sacrificio, alla sua croce.
Per il credente la croce di Cristo è denuncia e vittoria sulla violenza, segno della solidarietà di Dio con l’uomo oppresso e sfregiato nella sua dignità. La croce non è propriamente apologia della sofferenza, del sacrificio e della morte. Abbracciandola, Gesù la trasforma in atto d’accusa della violenza del sistema religioso–politico del suo tempo, da cui è rifiutato e ingiustamente condannato. Per la risurrezione, che non è compenso e riparazione dell’apparente insuccesso della morte di Gesù, ma l’affermazione sfolgorante della potenza della vita divina, la croce indica ad ogni uomo la via che porta al trionfo sulla violenza e sull’odio. Con la crocifissione, Gesù assume su di sé anche la condizione di ogni persona ingiustamente condannata. Poiché Dio Padre si curva sul Figlio per accogliere il dono della sua vita e per eternarla nel dinamismo potente della risurrezione, la croce testimonia la solidarietà di Dio nei confronti di chiunque sia calpestato nei suoi diritti fondamentali.
Quando il credente si immerge nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, è reso partecipe della vitalità e della fecondità sanante e liberatrice dell’Amore-non violento e, peraltro, attivo nel dono e nel perdono rigeneratore dell’uomo. È chiamato ad essere uomo del perdono, ad amare i propri nemici e a pregare per i propri persecutori. Profondamente pacificato, attivo nel dono di sé, è invitato a impegnarsi a fianco degli oppressi e degli ultimi, non per annientare gli oppressori e gli sfruttatori, ma per scuoterne le coscienze e portarli a Cristo, il “Servo sofferente”, perché siano guadagnati definitivamente all’amore, alla giustizia, alla pace. Il messaggio della pace e della nonviolenza nel Vangelo è connesso con l’annuncio e l’avvento del Regno di Dio.
L’abolizione della categoria di “nemico” non significa accettare l’ingiustizia, ignorare i conflitti. Si vuole, invece, attuare la giustizia nel suo significato più pieno, giacché il prossimo, come insegna lo stesso Gesù nella parabola del buon Samaritano, non è un essere astratto, ma reale, concreto, bisognoso di aiuto e di amore. A lui spetta l’amore misericordioso del Padre per rinascere come persona nuova ed essere pienamente sé stesso, ossia figlio di Dio. Mediante il suo insegnamento, Gesù invita a rinunciare alla strategia della violenza per assumere quella dell’amore attivo e creativo. Propone la giustizia dell’amore ‒ una forma più alta della giustizia, che cerca di stabilire una corrispondenza fra delitto e castigo ‒, che libera il malvagio dalla spirale della violenza e dell’iniquità (cf Mt 5,38-42).
Al termine di questa omelia, pronunciata sulla riva di quel fiume Lamone che è stato protagonista di due terribili alluvioni per Faenza e altri Paesi della Diocesi, viene spontaneo ringraziare tutti coloro che si sono mossi per aiutare noi alluvionati. Molti volontari, sia faentini sia provenienti dalle regioni italiane più lontane come la Sicilia, da altre Diocesi, tramite le loro Caritas, le loro protezioni civili, ci hanno raggiunti con un’«inondazione di amore», affinché nessuno dei colpiti dalla furia delle acque del Lamone e del Marzeno rimanesse da solo, senza solidarietà. Dalle sponde del Lamone, dunque, ove oggi ricordiamo il tragico eccidio di Crespino e di Fantino, con il cuore commosso dalla bontà di tanti fratelli e sorelle, giovani e adulti, leviamo riconoscenti al Signore il nostro grazie a tutti coloro che solerti samaritani ci hanno soccorso nelle nostre sofferenze e necessità, e ancora continuano a farlo, perché ancora molto rimane da fare per l’accoglienza di chi non ha più casa e per la ricostruzione. Nella mia vita di vescovo e di salesiano, non potrò mai scordare i tanti giovani, gli «angeli del fango», così li hanno battezzati, che a squadre si sono mobilitati per andare, più e più volte, giorno dopo giorno, verso le case sommerse e danneggiate. Mai e poi mai dimenticherò le persone costrette ad abbandonare la loro casa, accolte nei palazzetti dello sport con poche cose, con i loro animali domestici, anche loro scombussolati e frastornati. Grazie Signore, perché non ti sei scordato di noi, del tuo popolo prostrato.
+ Mario Toso